Missione fallita è il titolo che Gastone Breccia, uno studioso di storia militare che già aveva pubblicato un breve ma completo «Le guerre afgane», ha pubblicato per Il Mulino. Il titolo, che si fa beffe della Mission accomplished dichiarata da Bush jr nel 2003 a bordo della portaerei Lincoln, non potrebbe essere più azzeccato e va più in là della sola guerra afgana.

Breccia scrive che – oltre al fallimento politico – quello militare si deve anche alla nostra incapacità oggi di combattere perché siamo, al contrario dei Talebani, dei sunniti iracheni o dei radicali somali, «indisponibili a morire». Vuoi per nobile salvaguardia della vita umana, vuoi per il costo in termini elettorali di un soldato morto. «Noi occidentali – scrive Breccia – siamo riusciti a rendere la guerra oltre che terribile anche ignobile: facendola fare ad altri per nostro conto o sforzandoci di eliminare i suoi rischi inevitabili a scapito di chi è costretto a vivere nei luoghi dove la si combatte». Breccia analizza il periodo 2001-2019 – riassumendo le puntate precedenti – e ricorda alcuni aspetti su cui si è sorvolato rapidamente: per esempio che nel primo trimestre del 2019 per la prima volta esercito afgano e alleati hanno ucciso più civili dei Talebani. O la decisione Usa di triplicare i bombardamenti dall’aria. Una guerra combattuta da lontano, con caccia, droni ed elicotteri. Che e alla fine è costretta ad ammettere il suo fallimento.

Frutto dei tanti conflitti patiti, l’Afghanistan è oggi uno dei Paesi al mondo dove maggiore è la circolazione di armi leggere accanto a residuati bellici di armi pesanti che ne segnano ancora il paesaggio con vecchie lamiere di tank sovietici sventrati. Ma non è una storia solo di oggi o di ieri: la diffusione delle armi da fuoco in quest’area del mondo comincia ben prima, sin dal 1700 per diventare endemica nell’Ottocento, epoca di grandi rivalità tra altrettanto grandi potenze guidate da uno zar e da una regina.

Mentre l’Impero britannico assiste al suo declino, il traffico di armi va avanti: quello legale si interseca alle reti del contrabbando mentre la produzione straniera viene copiata in laboratori artigianali. La guerra afgana di oggi sembra confermare questa vocazione armata delle terre tra il Kyber Pass e la frontiera iraniana ma conferma soprattutto quanto gli interessi dei diversi padrini abbiano fatto di questa terra un enorme luogo di stoccaggio di piccole e grandi armi (e un laboratorio per quelle più moderne da poter testare in una guerra non simulata).

Elisa Giunchi descrive questo processo ne Il pasthun armato (Mondadori), una disamina della diffusione di armi da fuoco in Afghanistan soprattutto all’epoca del tramonto dell’Impero britannico tra il 1880 e il 1914. Ma il pregio del saggio di Giunchi risiede soprattutto nella descrizione di questo popolo – i pashtun – che non ha mai smesso di affascinare e stupire i suoi colonizzatori, fossero mongoli o indiani ma soprattutto occidentali.

Sono proprio gli inglesi infatti ad adornarli del mito del popolo fiero e combattente. Da tenere a distanza però, perché infido e pericoloso. «Per quanto la sua virilità fosse oggetto di ammirazione, il pashtun era per lo più disprezzato», scrive Giunchi: bravo in battaglia ma con una natura «brutale, fanatica e vendicativa». Anche Churchill ne aveva questa visione: «selvaggi spinti dal fanatismo o dal saccheggio… razza degradata: feroci come tigri….».

Se il pashtun ha una superiorità, questa gli deriva semmai «dall’invasione ariana che si intersecava con un essenzialismo razziale fondato su elementi biologici», tanto da far risaltare l’elemento positivo nel pashtun dalla quantità di sangue occidentale che gli scorreva dentro. È un personaggio che si affianca, anche nella letteratura di allora, a un eroe che è sempre «bianco e inglese» ma che ha bisogno «nel suo progetto civilizzatore» di altri. Pashtun, ma anche sikh, punjabi o gurkha nepalesi, ognuno inquadrato in una sua casella tra le cosiddette «razze marziali».

Questa antica visione del pashtun e, potremmo dire, dell’afgano in generale, finisce per non essere molto dissimile da quella che abbiamo oggi: stereotipi di cui, scrive Giunchi, «vi è una consapevolezza limitata». La rappresentazione stereotipata del pashtun nei documenti inglesi di fine Ottocento e inizi Novecento «ha continuato anche dopo il 1914 a influenzare la nostra percezione dell’Afghanistan», scrive ancora: «barbari» che, oggi come allora, possono essere nemici ma anche utili pedine degli interessi di vecchi e nuovi Giochi più o meno grandi.

Nel leggere le cronache di oggi sull’Afghanistan, sulla grande paura dopo la fine del nostro dominio e il ritiro delle truppe Usa e Nato, quegli stereotipi sembrano ritornare suonando campanelli d’allarme sul «dopo di noi il diluvio». Il pashtun, l’afgano, resta armato e, nella nostra testa, incapace di uscire dalla logica tribale di queste razze coraggiose ma «degradate» che restano inferiori. Peccato che Giunchi dedichi solo poche righe al movimento pashtun pacifista guidato da Abdul Ghaffar Khan alla fine degli anni Venti, l’esempio vivente di quanto lo stereotipo del pashtun armato fosse quantomeno riduttivo. Sarà forse lo spunto per una nuova ricerca.

Se Breccia si è dedicato alla guerra di oggi e Giunchi agli effetti delle precedenti, vale la pena allora di penetrarlo questo Grande Gioco che, soprattutto nei britannici, ha sempre eccitato gli animi dei voraci lettori delle imprese di Alexander Burnes (Travels into Bokhara) o di Mountstuart Elphinstone (An Account of the Kingdom of Caubul). Due edizioni recenti delle Edizioni Settecolori ci consentono di ripescare non solo l’autore del famosissimo Great Game, narrazione giornalistica ma sostenuta da solide ricerche e studi sul Grande Gioco, ma di entrare nel mondo di chi ne fece materia persino per bambini nel famosissimo «Kim».

Peter Hopkirk, che sul Grande Gioco ha scritto ben più del solo The Great Game, ha dedicato a Rudyard Kipling e al suo personaggio una specie di indagine nei luoghi che furono la grande cornice del Grande Gioco e del sudicio monello orfano, a cavallo del cannone Zam-Zammah, che lo rese famoso (anche se la locuzione Great Game si deve al capitano Arthur Conolly e non a Kipling).

Sulle tracce di Kim diventa così un percorso a tappe tra Lahore, Simla, montagne innevate e spioni di ogni sorta. Hopkirk non solo non nasconde la sua ammirazione per Kipling – anche se ovviamente Kim era un bianco e gli stereotipi citati da Giunchi ci sono tutti – ma lo innalza a cantore di quell’avventura che si combatteva tra i canati dell’Asia centrale, l’inviolabile Tibet e, ovviamente, l’Afghanistan.

Conclude le nostre letture l’altro titolo che Settecolori propone in contemporanea: Baionette a Lhasa di Peter Fleming, penna simile a Hopkirk che ci sposta sull’ultimo scenario del Grande Gioco – ben lontano dal nostro Afghanistan – dove si consumò il dramma della spedizione del 1904 guidata da Francis Younghusband e voluta dal viceré dell’India Lord Curzon. Francis, che trasformò la missione in un’invasione, la guerra la vinse. Ma la politica ne rinnegò i risultati e Londra fece carta straccia dell’iniquo Trattato di Lhasa che Younghusband aveva strappato ai tibetani.