Nel 2001, la distruzione dei Buddha di Bamiyan – due statue colossali scolpite nella roccia a 2500 metri di altitudine e datate tra il VI e il VII secolo d.C. – da parte dei Talebani provocò grande sconcerto in Occidente. Ora che l’Afghanistan è stato riconquistato dai fondamentalisti islamici, i media ritornano su quell’evento paventando attacchi al patrimonio su larga scala, come quelli inflitti dall’Isis in Siria e in Iraq tra il 2015 e il 2017. Ma il raffronto tra due ideologie definite, in questi specifici contesti, iconoclaste è opportuno o eccessivamente semplicistico? Ne abbiamo parlato con lo storico Omar Coloru, membro della missione archeologica italiana nell’antica Bazira (odierna Barikot) in Pakistan, specialista di Alessandro Magno e autore di numerose pubblicazioni accademiche sui regni ellenistici dell’Asia centrale.

 

Omar Coloru

«I jihadisti dell’Isis e i Talebani hanno storie diverse sebbene restino uniti da una visione fondamentalista della religione islamica. In Siria, siti importanti sono stati distrutti o danneggiati a favore di telecamera in nome della religione. Palmira, pur subendo danni evidenti, è servita ugualmente da macabro palcoscenico per esecuzioni pubbliche», dice Coloru. «Altre antichità sono state invece risparmiate per essere vendute illegalmente sul mercato antiquario, allo scopo di finanziare lo Stato Islamico. C’è, insomma, un approccio utilitaristico oltre che religioso. Anche le ragioni dell’iconoclastia talebana – continua lo studioso – non possono sempre essere chiaramente collocate nella sfera religiosa. Nel 1999 fu lo stesso mullah Omar a emettere un decreto per preservare i Buddha di Bamiyan, in quanto le sculture costituivano un’attrazione turistica e, dunque, una fonte di introito. Quando poi, nel 2001, se ne decise la distruzione adducendo motivazioni religiose, in realtà venne compiuta anche un’operazione eclatante per affermare il potere dei Talebani sulla locale minoranza etnica degli Hazara».

In che modo i Buddha erano legati all’identità hazara?

Nel folklore degli Hazara, i Buddha rappresentavano una sfortunata coppia protagonista di una tragica storia d’amore. I Talebani di oggi hanno un atteggiamento ambiguo che alterna dichiarazioni in difesa del patrimonio culturale ad atti palesi di distruzione di esso. Hanno compreso che la società è ormai mediatizzata e sfruttano a loro vantaggio il potere delle immagini. Se bisogna cercare dei punti di contatto tra Isis e Talebani, direi che la spettacolarizzazione dell’iconoclastia attraverso video e immagini è uno di questi, un atteggiamento che, paradossalmente, di iconoclasta ha poco o nulla.

I timori di distruzioni sono un’attitudine soprattutto europea. Alla massiccia mediatizzazione di certo neo-romanticismo orientalista (come fu per Palmira) non corrisponde, tuttavia, una reale e diffusa conoscenza del patrimonio archeologico dell’Afghanistan. Ci aiuti a fare una breve panoramica.

L’Afghanistan non è stato sempre quell’area periferica che spesso ci viene presentata secondo una prospettiva eurocentrica ma ha costituito il nucleo di veri e propri imperi. Il patrimonio archeologico plurimillenario del paese riflette bene una dimensione multiculturale del passato. Per limitarsi all’Antichità, potremmo citare due esempi illustri: il primo è Ai-Khanum, nel nord-est: si tratta dei resti di una metropoli ellenistica (probabilmente l’antica Eucratidia nota dalle fonti classiche), in cui assistiamo all’interazione tra cultura greca e mondo iranico locale. Tra i tanti «tesori» riportati alla luce in questo sito ci sono i frammenti di un’opera filosofica greca, forse da identificare col perduto dialogo Sulla filosofia di Aristotele. Il secondo esempio riguarda le rovine di Mes Aynak, a una quarantina di km a sud-est di Kabul. Sorto su un grande giacimento di rame, il centro urbano di Mes Aynak si sviluppa intorno al III-IV secolo d.C., per raggiungere l’apice circa due-tre secoli dopo. Lo sfruttamento minerario fu alla base della prosperità di questo insediamento, che ha restituito un numero impressionante di vestigia, tra cui cinque complessi religiosi buddisti, quartieri residenziali, fortificazioni, necropoli e, naturalmente, strutture connesse all’attività di estrazione mineraria. Numerosi anche i reperti rinvenuti durante scavi non sistematici: statue, pitture murarie, manufatti preziosi e documenti scritti.

Le ragioni alla base della prosperità di Mes Aynak, in fondo, sono le stesse che potrebbero causarne la scomparsa.

È così. Nel 2007, il governo afghano ha concesso alla compagnia mineraria cinese Mcc i diritti di sfruttamento del giacimento di rame per 30 anni, il che implica che in un prossimo futuro, al posto di Mes Aynak, potremmo trovare un enorme cratere. L’attenzione internazionale, gli scavi di salvataggio e la sospensione delle attività estrattive per ragioni di sicurezza e per la mancanza di fondi hanno evitato il peggio. Ma per quanto ancora?

Come si rapporta il popolo afghano con l’eredità di un passato che nel presente non gli è così familiare?

In generale, è consapevole dell’antichità della sua storia e delle sue tradizioni, ne va orgoglioso. Tale consapevolezza costituisce un tratto fondamentale dell’identità nazionale. Per quanto riguarda le antichità, non solo quelle ellenistiche, ci sono validi studiosi che si impegnano nella ricerca, nella salvaguardia del patrimonio storico-archeologico e nella formazione delle nuove generazioni. È d’obbligo citare l’Afghan Institute of Archaeology (Aia), grazie al quale è stato possibile attirare l’attenzione internazionale su Mes Aynak e dare impulso agli scavi di emergenza evitando, per il momento, la distruzione del sito.

Al di là dei proclami di rito lanciati dall’Unesco, come dovrebbe agire la comunità scientifica internazionale per aiutare gli afghani a preservare il proprio patrimonio in un contesto umanitario tragico?

Fino a che la situazione del paese non tornerà a una relativa normalità, tra i problemi più seri che ci troveremo ad affrontare possiamo annoverare senza dubbio gli scavi clandestini e il traffico di antichità. A tal proposito, l’Icom (International Council of Museums), in accordo con Wikimedia, ha lanciato una campagna a cui tutti noi possiamo dare il nostro piccolo contributo per proteggere l’eredità storica del popolo afghano. L’idea è semplice: se conosciamo o abbiamo accesso a file multimediali e collezioni che riproducono oggetti registrati dall’Icom nella lista rossa delle antichità afghane a rischio – sia che siano di dominio pubblico o disponibili con una licenza Creative Commons – potremo caricarle su Wikimedia Commons e renderle visibili in una galleria di immagini dedicata. In questo modo, sarà possibile segnalare i reperti inclusi nella lista rossa che vengono immessi sul mercato antiquario.