Il fotografo indiano e premio Pulitzer Danish Siddiqui è stato ucciso ieri in uno dei luoghi afghani più contesi – militarmente e mediaticamente – degli ultimi giorni, nel distretto di Spin Boldak, non lontano dal confine con il Pakistan, nella provincia meridionale di Kandahar. Stava seguendo, da embedded, le forze speciali che cercano di riprendere il controllo del bazar di Spin Boldak, occupato dai Talebani nella notte tra il 13 e il 14 luglio, e il valico di frontiera con il Pakistan.

MEMBRO DEL TEAM Reuters che nel 2018 si è aggiudicato il Pulitzer per la copertura della crisi dei Rohingya, Siddiqui è morto in un attacco sferrato dai Talebani. Il portavoce del movimento sostiene che non sapessero della presenza di Siddiqui, il cui nome si aggiunge a quello di tanti altri colleghi e colleghe. Secondo l’Onu, sarebbero 33 i giornalisti uccisi in Afghanistan soltanto tra il 2018 e il 2021. La maggior parte afghani. Come Yama Siahwash di Tolo News, Mohammad Aliyas Dayee di Radio Azadi, o come Malalai Maiwand e Mina Khairi, presentatrici uccise rispettivamente a marzo e giugno 2021.

Intorno a Spin Boldak si gioca da giorni una battaglia strategica e mediatica. Sui social media si rincorrono le dirette su Facebook dei Talebani. Servono a smentire i video – alcuni risalenti ad anni fa – con cui gli account pro-governativi sostengono di averne ripreso il controllo. Siddiqui testimoniava sul campo, dandoci modo di non accontentarci del racconto dei social, sempre più manicheo, falsato. Proprio sui social procede il conflitto politico, laterale a quello militare.

DUE GIORNI FA il vice-presidente afghano Amrullah Saleh, già a capo dei servizi segreti e malvisto da Islamabad e dai Talebani, ha sostenuto su Facebook che l’aviazione pachistana avrebbe avvertito l’esercito e l’aviazione di Kabul che ogni tentativo di allontanare militarmente i Talebani dal confine sarebbe stato respinto da Islamabad. Ieri ha rincarato la dose il presidente Ashraf Ghani. Nel corso di una visita a Tashkent, in Uzbekistan, dopo aver incontrato tra gli altri il primo ministro del Paese dei puri Imran Khan, ha accusato il Pakistan di soffiare sul fuoco della guerra, anziché favorire la pace.

IMRAN KHAN DICE il contrario: «accusarci per il conflitto interno all’Afghanistan è ingiusto». E si dice pronto a ospitare a una conferenza di pace di tre giorni. Avrebbe dovuto tenersi dal 17 al 19 luglio a Islamabad, ma è stata rimandata. A Kabul le smentite vengono accolte con scetticismo. Per tutti è il Pakistan, tradizionale alleato e sponsor dei Talebani, a complicare le cose. Per tutti, valgono le recenti parole del ministro degli Esteri, Shah Mahmood Qureshi, che intervistato dalla rete afghana Tolonews non è riuscito a condannare come terrorista Osama Bin Laden, ha negato la presenza dei leader talebani nel territorio pachistano e ha sostenuto con forza che l’India deve ridurre la propria presenza in Afghanistan.

LA MORTE DEL GIORNALISTA indiano Siddiqui proprio al confine di Spin Boldak incarna una partita geopolitica complessa. Pochi giorni fa il presidente Ghani si è rivolto ai Talebani: non attaccate il vostro stesso popolo, non accettate la Durand Line, il confine tracciato a tavolino dai britannici alla fine dell’800 e mai riconosciuto da Kabul.

I Talebani, alle prese con un’offensiva militare che gli ha fatto conquistare almeno metà dei circa 200 distretti del Paese ma che potrebbe averli sovraesposti, si dicono comunque pronti al negoziato. Secondo Nader Nadery, membro della delegazione negoziale di Kabul, avrebbero offerto 3 mesi di tregua in cambio della liberazione di altri 7.000 detenuti e della rimozione dalle liste nere dell’Onu. «Una trappola», sostiene qualcuno. Un modo per consolidare la presa sui territori conquistati, rifornirsi di armi e uomini. E poi, partiti definitivamente gli stranieri, dare la spallata sui capoluoghi di provincia, ancora in mano governativa.

IL FRONTE REPUBBLICANO non ha molte scelte. Una delegazione guidata da Abdullah Abdullah, a capo dell’Alto consiglio per la riconciliazione nazionale, è partita ieri per Doha. Include pezzi grossi della politica afghana tra cui Yunus Qanuni, l’ex governatore di Balkh Atta Mohammad Noor (fino a pochi giorni sul campo di battaglia in tenuta militare), il figlio del generale Dostum, Bator Dostum (il padre è da settimane in Turchia). Rimane un mistero la scelta dell’ex presidente Hamid Karzai. Ha accompagnato la delegazione, di cui faceva parte, fino all’aeroporto. Ma non è partito. Forse aspetta che sul piatto del negoziato ci sia più sostanza.