I Talebani si piazzano nei palazzi del potere di Kabul, da Dubai l’ormai ex presidente Ashraf Ghani torna a farsi sentire dicendo che tornerà presto nel Paese e che è stato costretto a lasciarlo, a Jalalabad sono almeno tre i morti per una manifestazione in difesa della bandiera tricolore nazionale, mentre dal Panjshir Amrullah Saleh, già vice di Ghani, continua a dichiararsi legittimo presidente della Repubblica islamica e chiede che l’Interpol arresti Ghani, traditore e fuggitivo. Tra Kandahar e Kabul continuano invece i colloqui tra i Talebani e quei leader politici afghani – Karzai, Hekmatyar, Rabbani – che vorrebbero una fetta di potere nel prossimo sistema istituzionale, qualunque esso sia.

SONO GIORNI CONVULSI in Afghanistan. Due giorni fa c’è stata la prima conferenza stampa del portavoce Zabiullah Mujahid, che ha cercato di rassicurare la popolazione e la comunità internazionale: la guerra è finita, non c’è niente da temere. Siete tutti e tutte invitate a ricostruire la nazione. Ma dopo le parole concilianti ecco gli spari sui manifestanti di Jalalabad. Secondo diverse fonti, a sparare sarebbero stati proprio i Talebani. Un segnale inequivocabile. Importante perché viene da Jalalabad.

A poche ore di automobile dalla capitale Kabul, lungo la strada che conduce al confine con il Pakistan e che ha visto il ritiro degli inglesi nell’Ottocento, Jalalabad è stata l’ultima importante città afghana a finire sotto il controllo dei Talebani, prima del loro arrivo a Kabul tra il 14 e il 15 agosto scorsi. La città, dove sono più diffuse le rupie pachistane degli afghanis, terra di transito e fieramente pashtun, ospita le tombe della regina Soraya e di Amanullah Khan, il re che nel 1919 ottenne l’indipendenza dagli inglesi. L’anniversario dell’indipendenza si celebra proprio oggi, 19 agosto.

I MANIFESTANTI ieri portavano la bandiera afghana tricolore. Non quella bianca con scritte nere dei Talebani. Ziaulhaq Amarkhil, governatore della provincia di Nangarhar di cui Jalalalad è capoluogo, ricorda che la bandiera è stata voluta proprio da Amanullah Khan. «Il colore nero significa bellezza, rosso significa jihad e martirio e giallo significa vittoria dopo la sconfitta del nemico». Va rispettata, manda a dire ai Talebani Amarkhil, che pure due giorni fa non ha perso tempo per congratularsi con la loro conquista del potere.

Ma l’Afghanistan è un Paese complicato. Lo dimostra la vicenda di Ashraf Ghani. Fuggito all’estero, accusato di aver portato con sé quasi 170 milioni di dollari, dileggiato come vile e traditore, Ghani è tornato a farsi sentire con un video messaggio di 10 minuti affidato a Facebook. Nega tutto. Nega di aver portato con sé dei soldi: «Neanche il tempo di indossare le scarpe». Nega di essere fuggito: «Mi hanno costretto a evacuare». Nell’Arg, il palazzo presidenziale, ci sarebbero stati «militanti stranieri che cercavano stanza dopo stanza». È dovuto scappare per non fare la fine del presidente Najibullah, per evitare che «il presidente venisse ucciso di fronte agli afghani un’altra volta» e per «evitare un bagno di sangue a Kabul».

ANCHE GHANI, come molti altri politici prima di lui, parla di un complotto. Chi ne siano i registi nessuno lo sa dire con precisione. Sta di fatto che i Talebani oggi sono al potere. E che per mantenerlo sono anche disposti a fare qualche concessione ai partiti o gruppi politici che hanno ancora qualche base elettorale o che li hanno aiutati a conquistare il Paese in meno di due settimane, certo dopo una lunga battaglia e guerriglia lungo 20 anni.

Tra loro ci sono l’ex presidente Hamid Karzai, il macellaio di Kabul e leader dell’Hezb-e-Islami Gulbuddin Hekmatyar, che nei mesi scorsi non aveva mancato occasione di farsi vedere al tavolo con i Talebani, a Doha, sede dei negoziati, e il leader del Jamiat-e-Islami Salahuddin Rabbani, già ministro degli Esteri e figlio di Burhanuddin Rabbani, l’ex presidente afghano ucciso proprio dai Talebani. Il figlio è più pragmatico: è tra quelli che, sottobanco, hanno accettato le offerte di tregua con gli studenti coranici. Oggi capitalizza, dopo essere stato nei giorni scorsi a Islamabad, dove ha incontrato i pezzi grossi dell’establishment militare e il ministro degli Esteri, Shah Mahmood Qureshi.

GLI INCONTRI E LE CONSULTAZIONI di queste ore sembrano indicare che i Talebani, per opportunismo e perché sanno di non rappresentare tutto il Paese e tutta la società, siano orientati a scegliere una forma di governo ibrida. Che combini da una parte meccanismi di rappresentanza, forse perfino elettorali, capaci di soddisfare interessi diversi da quelli degli studenti coranici. E dall’altra un forte esecutivo, controllato da un Comitato religioso.

Tra i Talebani non sono pochi quelli che invocano il ritorno dell’Emirato islamico, di cui i militanti islamici hanno sempre mantenuto la bandiera. Ma sanno che una scelta simile potrebbe allertare ulteriormente la comunità internazionale. Quale sarà la formula istituzionale scelta si vedrà nei prossimi giorni. Quel che è certo è che non sarà una democrazia, dicono i Talebani. E che in parte sarà l’esito dei colloqui di questi giorni. A cui partecipa anche Anas Haqqani, tornato in Afghanistan.

FIGLIO DI JALALUDDIN HAQQANI, fondatore dell’omonimo network terroristico, fratello dell’attuale leader Sirajuddin, che è anche il numero due della Rahbari shura, il gran consiglio dei Talebani, a lungo nel carcere di Bagram, Anas è stato liberato nel novembre 2019 in cambio della liberazione di Kevin King e di Temothy Weeks, due docenti dell’American University of Kabul. Lo scambio, definito allora da Ghani come «un boccone amaro» da mandar giù, doveva servire a favorire quel negoziato di pace tra Talebani e governo che gli studenti coranici hanno invece manipolato e usato per arrivare al potere con la forza.

Allora Ghani era presidente accentratore. Oggi manda messaggi dagli Emirati. Il suo vice, Amrullah Saleh, dalla valle del Panjshir, unico territorio a non essere sotto il controllo dei Talebani, chiede che l’Interpol lo arresti per aver tradito la patria ed essere fuggito con il malloppo. Soldi di uno Stato che non c’è più.