I Talebani tornano al potere in Afghanistan, i diplomatici occidentali vengono fatti evacuare, la popolazione assiste incredula alla capitolazione delle istituzioni degli ultimi venti anni. Sono drammatiche le scene viste in queste ore dall’aeroporto di Kabul: migliaia di afghani e afghane cercano una via di fuga, prendono d’assalto gli aerei, sperano che la comunità internazionale mantenga le promesse: non vi abbandoneremo.

GLI STRANIERI PERÒ VANNO VIA. I pochi rimasti hanno già le valigie pronte. Ne hanno poche gli afghani che si sono riversati ieri all’aeroporto, dopo che si erano diffuse false voci sulla possibilità di essere evacuati insieme agli stranieri, anche senza un invito, anche senza un visto. Qualcuno ha pensato di aggrapparsi alle ali e alle parti esterne degli aerei che decollavano. È finito schiantato al suolo, come la Repubblica islamica d’Afghanistan sorta sulle ceneri dell’Emirato dei Talebani, rovesciato nel 2001. Sono almeno 7 i morti causati dalla calca.

L’aeroporto, sulla cui sicurezza Washington ha negoziato per mesi con Ankara senza arrivare a una soluzione, è intitolato ad Hamid Karzai, l’ex presidente che due giorni fa – dopo che i Talebani erano arrivati a Kabul – si è autoproclamato membro di un “Consiglio di transizione” insieme ad Abdullah Abdullah e al leader dell’Hezb-e-Islami, Gulbuddin Hekmatyar, artefice della distruzione di Kabul negli anni Novanta, poi attore anti-governativo, infine rientrato nell’agone politico istituzionale. Non si sa chi abbia nominato il triumvirato. Sappiamo però che i tre politici sono ancora in Afghanistan, a differenza dell’ormai ex presidente, Ashraf Ghani, il tecnocrate-accademico che voleva salvare «un Failed State» – come recita un suo libro – e che è scappato. Con un bel malloppo di soldi, sostengono alcuni funzionari di Mosca, una delle capitali regionali che non ha mai avuto buoni rapporti con Ghani e che da anni ha aperto canali di comunicazione con i Talebani.

NELL’AEROPORTO della capitale campeggia da anni una foto del “Leone del Panjshir”, il comandante Masud, tra i protagonisti dell’Alleanza del Nord, fiero anti-talebano, ucciso due giorni prima dell’11 settembre 2001, la data-evento che ha portato al rovesciamento dell’Emirato dei Talebani, colpevoli di ospitare Osama bin Laden. Fuori dal controllo degli studenti coranici, oggi, c’è solo la valle del Panjshir.

Se le foto che circolano sono vere, lì sono riuniti l’ormai ex vice-presidente, Amrullah Saleh, con il figlio di Masud. Si dicono pronti a organizzare la resistenza. Ma solo due giorni fa Amhad Masud in un’intervista si diceva pronto a negoziare con i Talebani, che certo non temono i “panjshirì”, così isolati, dopo aver fatto scappare anche il maresciallo Abdul Rashid Dostum e Atta Mohammad Noor, i due uomini a cui Ghani aveva disperatamente affidato l’ultima resistenza. Sconfitti, anche perché imbolsiti dal potere accumulato illegalmente in questi anni, entrambi sostengono che c’è stato un piano per consegnare il Paese nelle mani dei Talebani.

ANCHE IL PRESIDENTE GHANI di recente ha voluto che la sua foto campeggiasse all’aeroporto. Lo stesso da cui è fuggito, pare. Fino a pochi giorni fa arringava la folla, assicurando che lui – al contrario di re Amanullah Khan – non è tipo da scappare. Amanullah Khan, il re che a soli 27 anni, nel 1919, ha ottenuto l’indipendenza dagli inglesi, è finito in esilio in Italia, a Roma, ma oggi è ricordato con commozione e rispetto da tutti gli afghani.

Ashraf Ghani, sulle cui spalle gravano molti errori, è il capro espiatorio di un fallimento colossale, storico. Così repentino da lasciare tutti interdetti. Il fallimento non è solo suo – di chi ha testardamente pensato di poter dirigere un gioco da cui è rimasto schiacciato – ma dell’intera classe politica. Del governo, delle istituzioni, fragili perché prive di legittimità, ma sempre sostenute dalla comunità internazionale in nome di quella democratizzazione che oggi appare per quel che era: un castello di carte. Kabul è caduta nelle mani dei Talebani dopo vent’anni di jihad ma dopo un’offensiva militare durata meno di due settimane.

MULLAH ABDUL GHANI BARADAR, uomo della vecchia guardia, già braccio destro di mullah Omar, poi catturato in Pakistan dai servizi locali e della Cia, imprigionato per otto anni, liberato per favorire il negoziato con gli Usa, infine volto diplomatico dei Talebani a Doha, ha guardato in diretta su al-Jazeera la conquista dell’Arg, il palazzo presidenziale, da parte dei suoi militanti. È l’uomo che ha condotto i negoziati con gli Stati uniti, conclusi con l’accordo di Doha del febbraio 2020. Accordo voluto dal presidente Donald Trump e confermato a metà aprile dal successore, Joe Biden. Che fin qui ha difeso la sua scelta. Non c’era alternativa, continua a dire.

LA SCONFITTA DEGLI STATI UNITI e della Nato è netta quanto la vittoria dei Talebani, a dispetto delle dichiarazioni di Biden, ultimo presidente in ordine di tempo a gestire una guerra che non andava fatta. E che ha inaugurato il più importante paradigma della politica estera statunitense dai tempi della Guerra fredda: la war on terror.

Si conclude con il ritorno al potere dei nemici, poi interlocutori diplomatici, capaci di manipolare l’inviato americano, Zalmay Khalilzad. È stata tra quelli che erano convinti di poter trattenere le spinte egemoniche dei Talebani, imbrigliandoli in un negoziato che loro hanno usato invece per ottenere i due obiettivi a lungo coltivati: il ritiro delle truppe straniere e la nascita di un vero “Stato islamico”.

Come sarà fatto non lo sa nessuno. Gli afghani sanno però che non possono fidarsi. E che nel Paese è già in corso una crisi umanitaria senza precedenti, celata dal conflitto in corso, fin qui. La resa di Ghani ha scongiurato che il conflitto venisse portato dentro una città così densamente popolata come Kabul. Ma non scongiura i pericoli e le incognite per gli afghani, che vivono ore di profonda incertezza e inquietudine.