I pezzi grossi della Nato sorridono rassicuranti, ma il danno è enorme. Il vertice atlantico che si apre oggi nel Galles si inaugura con un incontro sull’Afghanistan che avrebbe dovuto chiudere il sipario sulla lunga parentesi post-talebana, accogliendo il nuovo presidente della Repubblica islamica centroasiatica.

Che però non ci sarà. Non ci sarà neanche Karzai, il presidente uscente che ha regnato per 13 anni alternando subalternità all’alleato americano e rivendicazioni di indipendenza. A Kabul lo stallo politico prosegue da mesi. La cerimonia di insediamento del nuovo presidente era prevista per il 2 agosto, poi per il 2 settembre. Oggi siamo ancora in attesa di sapere se a governare sarà (come probabile) il tecnocrate Ashraf Ghani, già ministro delle Finanze, o il suo sfidante Abdullah Abdullah, figura di spicco dei tagiki dell’Alleanza del Nord. La mediazione del segretario di Stato Kerry non è riuscita a risolvere l’impasse in tempo per lo show della Nato: i due sfidanti si sono detti d’accordo sul riconteggio dei voti espressi nel ballottaggio del 14 giugno (Abdullah ha denunciato «frodi industriali» a suo danno) e su un futuro governo di unità nazionale.

Il riconteggio potrebbe concludersi oggi, ma si litiga sulla spartizione del potere. Per questo, in Galles è stato inviato un rimpiazzo, il ministro della Difesa, il generale Bismillah Mohammadi. L’assenza del nuovo presidente incarna il fallimento della strategia americana: dopo 13 anni di occupazione militare e con le truppe straniere sulla via del ritiro (oggi sono circa 40.000, 30.000 circa gli americani), l’Afghanistan rimane politicamente instabile, i movimenti antigovernativi forti, il negoziato debole, mentre le forze di sicurezza locali devono dimostrare di saper fronteggiare la minaccia talebana. Senza il sostegno finanziario della Nato, le truppe afghane sono destinate a collassare.

La presenza nel Galles del nuovo presidente serviva a dare fiducia ai partner, a garantire l’impegno preso al vertice Nato di Chicago del 2012. Allora sono stati promessi 3.6 miliardi di dollari annui per i 228.500 membri «previsti» delle forze di sicurezza afghane. Il governo Karzai si era impegnato per 500 milioni annui da aumentare progressivamente. Ma i salari da pagare sono circa 350.000, i costi maggiori: 6 miliardi di dollari. Nel Galles la Nato batte cassa, ma in cambio non può offrire né un presidente eletto con un processo democratico, né un paese pacificato, tantomeno quel trattato bilaterale di sicurezza tra Afghanistan e Usa che Karzai ha rifiutato di firmare e che il suo successore siglerà. Gli americani metteranno mano al portafogli, ma servono altri sostegni.

Ad ora ci sono solo quelli dei paesi che con entusiasmo hanno aderito sin dall’inizio a «Resolute Support», la missione-Nato di addestramento e sostegno alle forze afghane che dal 1 gennaio 2015 dovrebbe sostituire la missione Isaf: Italia, Turchia, Inghilterra, Germania. Cifre sicure sulle truppe straniere coinvolte non ce ne sono. Si parla di 4-5.000 uomini da aggiungere al contingente a stelle e strisce. Il 27 maggio Obama ha annunciato che saranno 9.800 i soldati americani sul terreno dopo la fine del 2014 (senza contare i contractor privati), mentre alla fine del 2016 torneranno tutti a casa.

Obama sembra non voler riconsiderare la sua strategia afghana né quel ribilanciamento geopolitico annunciato due anni fa dall’allora segretario di Stato Clinton: districarsi il prima possibile dalla palude mediorientale, tornando ad agire nell’area come «off-shore balancer» (secondo la strategia adottata fino agli anni ‘90), liberando risorse e uomini per un maggiore impegno in Asia/Pacifico. Ma lo scacco simbolico di oggi, dove non si potrà annunciare «missione compiuta» in Afghanistan, pesa.

E racconta di una Nato che provoca tensioni, quando sconfina dal suo alveo euro-atlantico: succede in Afghanistan, dove Pakistan e Iran alimentano la guerriglia anti-governativa anche per evitare l’ingresso del paese nell’orbita della Nato, mentre Russia, Cina e India assistono al ritiro dei soldati stranieri. Succede in Ucraina, dove la Russia agisce in reazione all’allargamento a est dell’Unione europea e all’espansionismo della Nato verso le aree a ridosso dell’ex impero sovietico.