Il presidente Ghani era sicuro di ottenere facilmente un secondo mandato. Almeno fino a quando da Washington non è partita una bordata: otto giorni fa il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, ha dichiarato che l’amministrazione Trump ritirerà un contributo da 100 milioni di dollari e un altro da 60 milioni, a causa «della corruzione e della cattiva gestione finanziaria» dei fondi statunitensi.

Parte di quei soldi sarebbero finiti proprio a un organismo anti-corruzione voluto da Ghani, che ha fatto della lotta i corrotti un cavallo di battaglia. Solo sulla carta, accusano gli antagonisti elettorali di Ghani. Che hanno fatto uscire notizie pompate ad arte per screditare il presidente. Lui teme di aver perso il sostegno indispensabile di Washington, e contraccambia: inefficaci i programmi di Usaid, l’agenzia di cooperazione degli Usa, dice. Da che parte sta il giocatore internazionale più importante?

IL SECONDO GRANDE PLAYER è nelle retrovie un po’ in disparte ma più che presente. Si chiama Russia, un tempo Urss, l’impero che iniziò nel 1979 la grande guerra afgana che dura da quarant’anni. Il tempo però favorisce l’oblio e Mosca ha giocato d’anticipo: ospitando riunioni coi Talebani, coccolando l’opposizione a Ghani, facendo ormai digerire a tutti una presenza un tempo ingombrante e ora ineludibile. Aspetta di vedere prima o poi passare il cadavere del nemico (gli Usa) lungo l’Amu Darya. Così la Cina, che ha da poco accolto una delegazione di studenti coranici e che è ai ferri cortissimi con Washington. Ma la Rpc ha già mezzo vinta la battaglia economica: miniere, telefonini, merci e un hub della Nuova Via della Seta. Con questo o quel presidente.

POI C’È IL QUADRO REGIONALE. Islamabad, e in particolare l’establishment militare, guarda con preoccupazione all’eventuale conferma di Ghani, che prima ha fatto un’apertura di credito verso il Pakistan, tradizionale sponsor dei Talebani, poi ha cambiato atteggiamento. Il fatto che come vice-presidente abbia scelto Amrullah Saleh, ex capo dei servizi segreti e fiero oppositore di Islamabad, non fa dormire sonni tranquilli ai generali del «Paese dei puri».

Sull’altro confine Teheran guarda le elezioni con grande attenzione. Per l’Iran è importante che a Kabul ci sia un governo amico. Che sia pashtun o tagico poco importa.

Importa invece che ridimensioni il Grande Satana che controlla le basi aeree afgane da cui si può minacciare il fianco orientale della Repubblica islamica.

Quanto Teheran anche le monarchie del Golfo – non tutte allineate tra loro – guardano con attenzione a Kabul dove anche loro vorrebbero un alleato sicuro. Per Riad deve essere un amico che, come per gli americani, sta alle spalle del suo peggior nemico e cioè l’Iran. In passato Riad ha mediato mentre ora sembra più defilata. Ma i suoi legami coi gruppi jihadisti, settari, antisciiti – sia in Pakistan sia in Afghanistan – sono una vecchia abitudine così come un’alleanza di fatto con la fazione degli Haqqani, i più radicali dei Talebani. Infine in Afghanistan c’è parte di quel che resta dello Stato islamico, un progetto che a Riad, finché si riesce a controllarlo, non è mai dispiaciuto anche se ora – se mai ci fossero legami – Riad fa di tutto perché restino ben sottotraccia. Anche il Qatar, con un’aspirazione a diventare una potenza regionale, ha giocato sul tavolo: ospitando l’ufficio politico dei Talebani. Infine c’è l’Europa, partner di peso nella Nato. Italia compresa. Ma questo è un altro capitolo che col dopo elezioni chiarirà meglio che cosa vuol fare l’Alleanza e i Paesi che vi aderiscono.