«Abbiamo la maggioranza dei voti. Non si andrà al ballottaggio». Abdullah Abdullah, primo ministro e principale antagonista del presidente Ashraf Ghani nelle presidenziali tenute sabato in Afghanistan, si dice sicuro. La vittoria è sua. Così ha dichiarato in una conferenza stampa, ieri a Kabul. Gli ha risposto Amrullah Saleh, ex capo dei servizi segreti e candidato vice-presidente di Ghani: tutti devono rispettare le regole del gioco e aspettare l’annuncio ufficiale del vincitore da parte della Commissione elettorale. Peccato che proprio Saleh avesse già anticipato che era Ghani, secondo i dati a loro disposizione, ad aver ottenuto il 60/70% dei voti.

 

L’arrivo di Abdullah Abdullah alla conferenza stampa di ieri a Kabul (Afp)

 

È SOLO L’ULTIMO EPISODIO della saga tra Ghani e Abdullah, costretti dagli Usa alla coabitazione in un governo di unità nazionale nel settembre 2014 quando i due, dopo il ballottaggio, si accusavano reciprocamente di brogli. Questa volta le accuse – almeno per ora – sono limitate. Maggiore la fiducia nella Commissione (molti ex membri sono finiti in carcere, per corruzione). In ogni caso, chiuse le urne, si è aperta un’altra partita, ancor più delicata: il conteggio, le pressioni sulla Commissione, lo scrutinio dei candidati principali. E lo sguardo, tra curiosità e disincanto, degli afghani.

Sono pochi quelli che hanno deciso di recarsi alle urne. La Commissione elettorale domenica ha detto di aver registrato 2,1 milioni di voti in 3,376 centri elettorali (ogni centro, diversi seggi). All’appello mancano almeno altri mille centri. Cinquecento, da aggiungere ad altri duemila già dati per persi alla vigilia, quelli che per ragioni di sicurezza sono rimasti chiusi sabato. La Commissione stima che si potrebbe arrivare a 2 milioni e mezzo, se non a 3 milioni di voti totali. Meno di un terzo dei 9 milioni e 700mila afghani registrati nelle liste. A sua volta, meno di un terzo degli abitanti del Paese.

Le ragioni della bassa affluenza sono diverse: il fatto che fino al 7 settembre, quando Donald Trump ha mandato all’aria il negoziato con i Talebani, nessuno credeva che le presidenziali si sarebbero svolte davvero. Poi il fatto che almeno metà della popolazione, perlopiù rurale, ha altri pensieri per la testa: la sopravvivenza. Si aggiunge il forte disincanto verso la politica e lo stesso processo elettorale, viziato da brogli e corruzione. Ma 3 milioni di voti veri sono preferibili ai 7 milioni di voti gonfiati registrati nel 2014, notano i commentatori.

I TALEBANI SOSTENGONO che gli afghani hanno capito che le elezioni sono una truffa imposta dall’esterno. Incassano un successo politico. Hanno sabotato il processo elettorale senza inimicarsi eccessivamente le simpatie della popolazione. Anziché attentati clamorosi con molte vittime, hanno scelto il “basso profilo”, dimostrando di controllare il territorio. Sono almeno 400 gli attentati condotti in 29 delle 34 province. Nove i civili e 20 almeno i poliziotti uccisi. Tante le strade bloccate. Diversi i problemi di comunicazione causati dai loro attentati, con diverse province isolate per molte ore.

ORA È TUTTO NELLE MANI della Commissione elettorale. Se dovesse attribuire la vittoria ad Abdullah, c’è da aspettarsi una riconfigurazione del panorama politico. Se fosse Ghani, il presidente si troverebbe rafforzato, ma dovrebbe rinunciare all’idea personalistica del potere, soprattutto in vista di futuri colloqui con i Talebani. Chiunque vinca, rimane il vulnus strutturale di un sistema, inaugurato dai cacciabombardieri Usa nel 2001, sempre più fragile. Aggrappato a un voto che rappresenta il 10% della popolazione. Guerra e democrazia, ci dice il voto afghano, non vanno d’accordo.