Sarà per via dell’altitudine che rende l’aria più rarefatta e conferisce agli azzurri e ai gialli un’intensità vivace, o per le tracce di culture antichissime, nonché per l’accoglienza della popolazione locale, certamente l’Afghanistan è una terra amata dai viaggiatori di tutti i tempi. Si condivide il pasto frugale e un tiro di narghilè, come racconta Annemarie Schwarzenbach in La via per Kabul. Turchia, Persia, Afghanistan 1939-’40, accompagnando le sue parole con le fotografie in bianco e nero. «Mentre mi offrivano pane e una tazza di tè non zuccherato, giovani e vecchi fecero cerchio intorno a me, i bambini mi guardavano con stupore, le belle ragazze mi toccavano i vestiti, il medico mi rivolse domande gentili e serie, e poi mi diede un cavallo e una guida perché non mi perdessi sulla via del ritorno. In quel villaggio nel deserto, come nel ricco giardino di Shibargan, la cordialità era autentica ed è questa virtù a rendermi caro e prezioso l’Afghanistan».

Il senso dell’avventura, così radicato nell’idea stessa di viaggio, ha una sua specificità quando è associato allo studio dell’antichità. La mostra Afghanistan, ombres et légendes, curata da Nicolas Engel e Sophie Makaroiu al Musée Guimet di Parigi (fino al 6 febbraio 2023), realizzata in occasione del centenario della nascita della Delegazione Archeologica Francese in Afghanistan (DAFA), esalta anche questo aspetto attraverso i risultati delle campagne fotografiche delle missioni archeologiche, a confronto con i reperti provenienti da quegli stessi scavi e che costituiscono una delle collezioni afghane più rilevanti dell’Occidente.

Un paio d’anni prima della giornalista svizzera era andato sulle stesse rotte anche l’irascibile Robert Byron, autore inglese di libri di viaggio tra cui La via per l’Oxiana (1937), «testo sacro» per Bruce Chatwin la cui copia personale (ormai priva di rilegatura e con le pagine macchiate) lo accompagnava da quando era un teenager, come è lui stesso a ricordare in Lamento per l’Afghanistan del 1981. Nel suo libro Byron descrive anche i Buddha di Bamiyan: «Siamo usciti su un balcone a contemplare ai nostri piedi i campi verdeggianti, il fiume grigio-azzurro fiancheggiato da pioppi verde veronese e i sentieri di terra rossa su cui i contadini spingevano i loro animali, per poi trovare, alzando lo sguardo, i due Buddha che da lontano si affacciavano al balcone come se stessero rendendoci una visita pomeridiana».

Le annotazioni di Byron trovano corrispondenza nelle fotografie scattate nel 1923 da André Godard, ma anche in quelle a colori (esposte nell’ultima sezione della mostra) di Steve McCurry, fotografo Magnum che nel 1992 ha immortalato una partita di pallavolo davanti al grande Buddha Dipamkara. In un’altra sua foto del 2003, in prossimità delle nicchie ormai desolatamente vuote un gruppo di ragazzini si arrampica sulla carcassa di un furgone abbandonato.

A proposito di missioni archeologiche, non senza una sfumatura di sarcasmo l’inglese annota che gli archeologi francesi «hanno lasciato le grotte in buono stato di agilità, hanno restaurato e ridipinto gli intonaci, aggiunto delle scale dove erano necessarie e affisso utili cartelli in francese e in persiano per coloro che non hanno avuto la fortuna di studiare le loro pubblicazioni: Groupe C; Salle de Réunion; Groupe D; Sanctuaire, influences iraniennes, ecc.».

Bodhisattva, Afghanistan, monastero di Fondukistan, fine del VII secolo

Nel 1922 la creazione della DAFA aveva dato il primo impulso alle ricerche archeologiche in Afghanistan, grazie anche al sostegno di Amanullah Khan, sovrano dell’Afghanistan dal 1919 al 1929, che aveva ottenuto l’indipendenza del paese dalla corona inglese. Lo vediamo ritratto in abiti occidentali à la mode, insieme alla moglie Soraya con cappotto di pelliccia e cloche, sulla copertina de «L’Illustration» del 4 febbraio 1928, in occasione della loro visita ufficiale in Francia e in altri paesi europei.

Tra le numerose campagne di scavo, certamente una delle più significative è quella di Joseph Hackin (direttore dello stesso Musée Guimet), che con il suo team di archeologi, tra cui la moglie Ria (Marie-Alice Parmentier), Alfred Charles Auguste Foucher, André Godard e l’architetto Jean Carl, tra gli anni venti e trenta è stato protagonista di importanti scoperte come Begram, tra le valli di Ghorband e Panjshir, con il suo tesoro reale di sculture d’avorio e altri preziosi arredi.

Di Ria, che compare in molte immagini con l’apparecchio a soffietto sul treppiedi o con la cinepresa mentre gira documentari, nelle collezioni del MNAAG si conserva il fondo fotografico, insieme al manoscritto Légendes et coutumes afghanes di cui è coautrice insieme ad Ahmad Ali Kohzad (successivamente esimio direttore del Museo di Kabul), pubblicato postumo nel 1953. I coniugi Hackin, antifascisti e membri della Resistenza francese, morirono nel ’41 sulla nave silurata dai tedeschi al largo delle Isole Faroe.

Del ’26 sono le foto dell’archeologo Jules Barthoux, che sulle orme di Marco Polo scoprì il sito greco-ellenistico di Aï Khanoum, oggetto degli scavi di Paul Bernard nel 1965-’67. Costumi tradizionali femminili, suppellettili di vetro dipinto, un manoscritto miniato con un’antologia poetica del 1480 ca. sono tra gli oggetti esposti al Guimet, insieme a una serie di raffinatissime sculture del VII secolo provenienti dal monastero buddhista di Fondukistan, documentate fotograficamente da Jean Carl durante la missione del ’37.

Un’altra figura che lega indissolubilmente il proprio nome all’Afghanistan è Nancy Hatch Dupree, fondatrice del Centro di studi sull’Afghanistan dell’Università di Kabul e della Louis and Nancy Hatch Dupree Foundation. Autrice anche di guide turistiche, a partire da An Historical Guide to Kabul (1965), Nancy Hatch era arrivata a Kabul nel ’62 insieme al marito, il diplomatico Alan Wolfe, da cui divorziò per sposare l’archeologo Louis Dupree, noto per le originali ricerche legate ai primi insediamenti umani in Afghanistan durante il Paleolitico medio e superiore. Nel decennio in cui la coppia vive a Kabul il fervore culturale è particolarmente vivace, poi dal 1979 al 2001 il paese è dilaniato prima dall’occupazione sovietica, poi dalla guerra civile con la presenza delle truppe americane contro i talebani. Nel lungo periodo che arriva al 2003 anche le ricerche archeologiche si sono interrotte, riprendendo sotto la minaccia incombente del ritorno al potere dei talebani, che è diventata realtà il 15 agosto 2021.

Vedere dal vivo monumenti straordinari come il minareto di Jam del XII secolo (patrimonio Unesco) è oggi pressoché impossibile. Bisogna accontentarsi della proiezione in 3D o magari rispolverare i racconti di viaggio del ’69 di Peter Levi in Il giardino luminoso del re angelo. Un viaggio in Afghanistan con Bruce Chatwin. «Camminammo verso valle per tre o quattro chilometri, fin dove il fiume Jam si getta nell’Hari rud; il minareto sorge proprio alla confluenza tra i due corsi d’acqua», scrive il gesuita, scrittore, poeta, viaggiatore e docente universitario, accompagnato nel viaggio di quattro mesi da Chatwin (li raggiunse anche sua moglie Elizabeth), autore delle foto a colori pubblicate nel libro: «Il letto dell’Hari rud è largo una trentina di metri, la corrente è molto forte e l’acqua ha una tinta verde pallido: le montagne sembrano ammassi di lava indurita e fredda; il minareto è un elegante matita color biscotto, alta e magnificamente istoriata di iscrizioni turchesi, costruita nel punto da cui il muezzin poteva più facilmente riempire la valle con gli echi della preghiera».