Le dichiarazioni del ministro Mauro sulle missioni di «pace» e quanto «valga la pena di essere in Afghanistan» al Meeting di Rimini chiamano a un commento possibilmente non rituale sul tema. L’ostinatezza con la quale si continua a rivendicare la giustezza della presenza militare in Afghanistan denota la grave indisponibilità a ridiscutere la «mission» dell’Italia nel mondo, su come intervenire in conflitti complessi, asimmetrici, nei quali la componente militare risulta essere inadeguata allo scopo. E dove semmai l’Italia dovrebbe privilegiare gli aspetti civili della sicurezza e della prevenzione.
Esiste una sorta di rimozione al riguardo, non solo circa l’assenza di una volontà politica «bipartisan» a considerare il ritiro immediato delle truppe e modalità differenti (per esempio la cooperazione civile) con le quali evitare di abbandonare il popolo afghano al suo destino. La rimozione riguarda il pregresso, assunto acriticamente come fonte di legittimazione per il futuro.
Questo governo ha confermato l’impegno del governo Monti di sostenere la nuova missione Nato in Afghanistan «Resolute Support» dal 2015. Una scelta che verrà presentata tra qualche settimana al Parlamento come un «fatto compiuto», dove l’Italia è l’unico paese europeo assieme alla Germania a decidere di restare sul campo dopo il 2014. E mentre a chi sollecitava il ritiro delle truppe prima del 2014 si rispondeva che ciò a nulla sarebbe valso giacché il cronogramma era stato già fissato alla fine dell’anno, dietro le quinte già si stava prendendo – senza alcun tipo di dibattito pubblico o parlamentare – la decisione di restare in Afghanistan anche dopo. Per questo chiedere che l’Italia annunci ora l’intenzione di anticipare il ritiro dal contingente Isaf e di rivedere la propria partecipazione a «Resolute Support» sarebbe un segnale di discontinuità necessario per discutere sull’Afghanistan senza eredità di sorta. È chiaro infatti che in quello scenario non dovrà esserci la Nato seppur nelle sembianze di una missione di training militare, in un contesto strategico conflittuale e poco chiaro, nel quale la Casa Bianca continua a non escludere il ritiro definitivo delle truppe.
Nulla di simile sembra essere mai stato contemplato a livello istituzionale in Italia. Nessuna discussione critica, nessuna valutazione chiara e trasparente dell’efficacia della presenza militare, dei progetti di ricostruzione, nessuna cifra riguardo le vittime civili, o i danni «collaterali» conseguenti alle missioni italiane.
Solo parole di circostanza per legittimare una missione che non può essere considerata di interposizione, quale Unifil II in Libano. Oltre alle verità assiomatiche, infatti, il ministro fa – nelle sue dichiarazioni – di tutta l’erba un fascio.
Assimilare missioni differenti per mandato, regole d’ingaggio e cornice legale ed istituzionale, quali Isaf (Nato) e Unifil II (missione di caschi blu Onu) non è solo un errore di interpretazione, ma di nuovo sintomo di scarsa chiarezza sulla «mission» dell’Italia. A differenza di Isaf, infatti, Unifil è servita a disinnescare il rischio di un nuovo conflitto anche perché non dotata di vocazione combat o offensiva, ma di vera interposizione e riconosciuta come super partes tra le parti in conflitto. Forse al ministro questo dettaglio è sfuggito.

* responsabile esteri Sel