A chi giova il caos in Afghanistan, causato dal ritiro Usa e anche assai prevedibile visto che i talebani sono all’offensiva da almeno tre mesi? Certamente non agli afghani e neppure all’Iran dove si è appena insediato alla presidenza l’ultraconservatore Ebrahim Raisi in trattativa con gli Usa sulle sanzioni, alla guida di un Paese, stritolato dall’embargo e dalla pandemia, che è sempre stato un avversario dei talebani.

Gli iraniani, prima del ritiro americano, potevano accettare, o persino favorire, che i talebani destabilizzassero Kabul ma non possono tollerare che tornino adesso al potere. Anche se una loro delegazione è stata ricevuta a Teheran _ così come a Mosca e Pechino _ tutti ricordano che nel ’98 massacrarono 11 diplomatici iraniani a Mazar el Sharif e che ora fanno la stessa cosa con la popolazione sciita afghana e gli hazara.

In Afghanistan si profila il rischio di una sanguinosa guerra civile che può trasformarsi in un altro conflitto sciita-sunnita, così come è stato in Iraq prima con Al Qaida e poi con l’ascesa del Califfato. E’ in momenti come questi che negli uffici strategici della repubblica islamica rimpiangono il generale Qassem Soleimani, fatto fuori dagli Usa nel 2020 a Baghdad.

La guerra Usa-Israele-Iran continua con ogni mezzo, dalle provocazioni agli attentati agli scienziati iraniani, ai raid aerei americani e israeliani in Siria e in Iraq contro le milizie filo-sciite e i pasdaran: se ne parla poco se non quando esplodono le tensioni nel Golfo del petrolio come è avvenuto con la nave israeliana colpita in Oman da un drone (due morti). L’Iran si troverà presto sotto pressione su tre fronti, nel Golfo, a est e a ovest e questa volta non c’è un Soleimani a indirizzare il sanguinoso vortice mediorientale.

Tutto questo avviene per una precisa scelta americana: creare il caos e sfruttarlo a proprio vantaggio e degli alleati di Washington, da Israele alle monarchie del Golfo che fanno parte o ruotano intorno al Patto di Abramo voluto da Trump.

È questa la «strategia del caos» attuata, dall’Afghanistan alla Libia, da diverse amministrazioni repubblicane ma anche democratiche, compresa quella di Obama di cui era vicepresidente Biden. Si tratta in sostanza di risparmiare sulla presenza militare diretta come è stato in Afghanistan o Iraq e di lasciare ardere focolai di guerra o di resistenza: sono le cosiddette guerre per procura, fatte con le vite degli altri. L’Iraq è stato questo, così come la Siria, la Libia e adesso il nuovo capitolo del conflitto in Afghanistan.

È un tipo contraddittorio Biden. Da una parte riprende le trattative con Teheran sull’accordo nucleare del 2015 voluto da Obama e cancellato da Trump nel 2018, ma allo stesso tempo bombarda gli alleati dell’Iran in Iraq e in Siria. Anche in Iraq si sta ritirando lasciando la presenza militare soprattutto a una missione Nato che andrà sotto il comando dell’Italia. Insomma gli Usa creano i guai, come accadde con la guerra del 2003 contro Saddam, e noi ne paghiamo per decenni le conseguenze, esattamente come è avvenuto in Libia nel 2011 quando insieme e a francesi e inglesi attaccarono Gheddafi.

Qualcuno si ricorderà della reazione del segretario di stato Hillary Clinton al linciaggio e all’assassinio di Gheddafi, frase ricordata da Diana Johnstone nella sua biografia opportunamente intitolata «Hillary Clinton regina del caos»: «Siamo venuti, abbiamo visto, è morto», un motto che pronunciò seguito da una gran risata. Tony Blinken, l’attuale segretario si stato, era allora il più entusiasta sostenitore dell’attacco in Libia. Sì, proprio quella Libia da dove è appena tornato il ministro degli esteri Di Maio, nella schiera di coloro che non si arrendono neppure davanti all’evidenza continuando a ringraziare gli Usa di non si sa quale favore.

È da notare che nel 2019, quando Khalifa Haftar assediava Tripoli e il governo Sarraj _ legittimamente riconosciuto dall’Onu _ gli Usa si sono astenuti dal bombardare il generale della Cirenaica, lasciando che poi fosse Erdogan a occupare la Tripolitania, con tutti i danni che ne sono venuti all’Italia. Perché gli Usa, sempre pronti a bombardare chiunque, non hanno fatto nulla? Semplice, perché il generale Haftar è sostenuto da Egitto ed Emirati, due Paese clienti di armi Usa, con in più gli Emirati entrati nel famoso patto di Abramo con Israele.

La guerra in Afghanistan era persa in partenza, sostiene il saggista indiano Pankaj Mishra. Eppure delle false convinzioni hanno alimentato un’iniziativa costata un numero enorme di vite umane e centinaia di miliardi di dollari, lasciando l’Afghanistan in condizioni peggiori di quelle in cui era prima. E non c’è neppure bisogno di invocare il cliché dell’Afghanistan come cimitero degli imperi per capire che i talebani erano una forza resistente e mutevole. Ma quello che ci appare un fallimento – come l’Iraq, la Libia o la Siria – non lo è se si applica la strategia americana del caos. C’è sempre una Clinton o un suo erede pronto a farsi quattro squallide risate.