Proprio mentre in diverse ambasciate afghane – ieri sera in quella di Roma – si celebrano i 100 anni dall’agosto del 1919 in cui re Amanullah poté siglare il trattato che certificava l’indipendenza (che l’Italia riconobbe tra le prime), una nuova ondata di violenza macchia di sangue il conto alla rovescia per le presidenziali di fine mese.

SONO STRAGI DI SEGNO OPPOSTO, pane quotidiano da 40 anni ma che negli ultimi due mesi si son fatte più ravvicinate: sia per pesare sul negoziato di pace tra Talebani e americani, sia perché quel negoziato è per ora naufragato dopo che Trump lo ha dichiarato defunto in seguito al gran rifiuto della guerriglia di andare a siglarlo a Camp David.

La prima strage è nella provincia di Nangarhar, sul confine orientale. Un raid di droni armati condotto dall’aviazione statunitense in collaborazione con quella afgana colpisce mercoledì notte un terreno agricolo dove si coltivano pinoli a Wazir Tangi, distretto di Khogyani. I civili uccisi sono almeno una trentina e una quarantina i feriti, dicono i membri del Consiglio provinciale. Bersaglio sbagliato: anziché colpire un nascondiglio dello Stato islamico il conto vien fatto pagare ai contadini.

La seconda strage avviene al mattino presto di ieri a Qalat, capoluogo della provincia sudorientale di Zabul. Un camion bomba viene indirizzato dai Talebani – che ne rivendicano la paternità – nella stessa strada dove ha sede un ospedale e un centro dei servizi segreti (Nds).

QUANDO IL CAMION si schianta contro un muro esterno della sede dell’agenzia, coinvolge inevitabilmente il nosocomio. Il bilancio dei morti è ancora incerto e nel pomeriggio di ieri è lievitato fino ad almeno una ventina: i feriti sono un centinaio. Tra loro donne, bambini, anziani, personale dell’ospedale ora chiuso. È il centro sanitario più importante della provincia e dunque le ambulanze son dovute arrivare da Kandahar, a oltre 130 chilometri. Solo un governo forte della legittimazione del voto può proteggere la popolazione, sostiene il presidente Ashraf Ghani, galvanizzato dallo stop al negoziato e in piena campagna elettorale.

CHIEDE UN SECONDO MANDATO per portare a termine riforme istituzionali e consolidamento economico. Ma gli oppositori, a partire dall’eterno sfidante, il quasi primo ministro Abdullah Abdullah, lo accusano di usare la macchina statale per fini personali. Sono rimasti spiazzati anche loro. Quando la firma dell’accordo tra Talebani e americani sembrava imminente, davano per scontato l’annullamento delle elezioni. Ghani ne sarebbe uscito ulteriormente indebolito.

Ma le elezioni si terranno. Washington a lungo ha insistito affinché Ghani accettasse un governo a interim e rinunciasse alle elezioni. Ora chiede che siano trasparenti. Difficile, se non impossibile. Dal rovesciamento dell’Emirato islamico dei Talebani nel 2001, tutte le tornate elettorali sono state viziate da frodi, brogli, intimidazioni.

E OGGI IL PAESE è perfino più insicuro di 5 anni, quando a contendersi la poltrona dell’Arg, il palazzo presidenziale, erano sempre Ghani e Abdullah. Il presidente in carica appare favorito, ma è di ieri un segnale che dovrebbe preoccuparlo. Il segretario di Stato degli Usa, Mike Pompeo, ha dichiarato che ritirerà un contributo da 100 milioni di dollari e che ha rifiutato un altro finanziamento da 60 milioni, a causa «della corruzione e della cattiva gestione finanziaria» dei fondi.

Parte di quei soldi sarebbero finiti proprio a un organismo anti-corruzione voluto da Ghani, che ha fatto della lotta alla corruzione un cavallo di battaglia. Solo sulla carta, sembra volergli dire Mike Pompeo. Che forse intende «punirlo» per la riluttanza con cui ha sempre guardato al negoziato con i Talebani, da cui era escluso. Secondo Reuters, Ghani avrebbe avuto soltanto 20 minuti di tempo per leggere il testo dell’accordo che l’inviato di Trump, Zalmay Khalilzad, aveva concordato con i Talebani. Soltanto due settimane fa, Khalilzad era convinto di aver chiuso un accordo storico. Ghani di essere stato pressoché sconfitto politicamente. Ieri, mentre Khalilzad testimoniava davanti alla Commissione esteri del Congresso Usa sulle sue scelte sull’Afghanistan, Ghani faceva campagna elettorale per un secondo mandato.