Su Kunduz sventola bandiera talebana. A tre giorni dalla conquista, avvenuta lunedì, i Talebani ancora controllano gran parte di questa città da trecentomila abitanti, capoluogo dell’omonima provincia settentrionale dell’Afghanistan. I combattimenti, ieri, sono andati avanti per tutta la giornata. Chi ha potuto, ha lasciato la città (sono almeno 6.000 le persone fuggite nelle ultime 24 ore), chi è rimasto è costretto in casa, mentre cominciano a scarseggiare i beni primari, tanto che la Croce rossa internazionale ha invitato i belligeranti a consentire l’arrivo di altri medicinali.

Preoccupati per quella che rappresenta la più importante conquista talebana dal 2001, sono intervenuti anche gli stranieri. Un numero imprecisato di soldati della missione a guida Nato «Resolute Support» è stato inviato a Kunduz, «con un ruolo non combattente», ha precisato il portavoce della coalizione, il colonnello Brian Tribus, il quale ha ammesso che alcuni uomini delle forze speciali americane ieri combattevano sul terreno, per «auto-difesa». Nella notte tra martedì e mercoledì gli americani hanno fatto ricorso anche ai bombardamenti aerei, per evitare che l’aeroporto della città finisse in mano ai Talebani.

La presa di Kunduz segna uno spartiacque nella lunga storia del conflitto afghano. Arriva, non a caso, nel primo anniversario dell’insediamento del governo bicefalo del presidente Ashraf Ghani e del quasi «primo ministro» Abdullah Abdullah É stata preparata con cura. Non si tratta di un’incursione improvvisa, ma di un accerchiamento, di un’occupazione graduale dei distretti che la circondano.
E di un contestuale, progressivo distacco tra istituzioni e popolazione locale, sempre più indispettita dagli scontri dentro l’amministrazione provinciale (divisa come il governo centrale tra i pro-Ghani e i pro-Abdullah) e dalla mano libera lasciata alle milizie e alle forze di polizia locali, autrici di delitti e abusi sulla popolazione.

Proprio perché annunciata da tempo, ha provocato un terremoto nel panorama politico. Parlamentari e senatori hanno usato parole infuocate contro il governo, criticandone l’inettitudine. Qualcuno ne ha chiesto le dimissioni. Il presidente Ghani in un discorso in yv ha sostenuto che «la situazione è sotto controllo», ma poi ha silurato il governatore della provincia di Kunduz che lunedì era in Tajikistan e che sarebbe poi fuggito a Londra. Mentre Rahmatullah Nabil, a capo dell’Nds, i servizi segreti, si è dovuto scusare con gli afghani per la disfatta.

La Nds ha dichiarato di aver ucciso il governatore-ombra per i Talebani della provincia di Kunduz, mullah Abdul Salam, ma gli studenti coranici hanno negato, diffondendone una comunicazione audio che risalirebbe a ieri.

I Talebani, dunque, gongolano. La conquista di Kunduz è un colpo formidabile per la propaganda. Con evidenza esemplare manda all’aria la retorica dei portavoce della Nato, del Pentagono e dell’Arg, il palazzo presidenziale di Kabul, i quali in questi ultimi mesi, con accenti diversi, avevano tessuto le lodi dell’esercito afghano, la sua capacità di tenere il terreno, di rispondere agli attacchi dei Talebani, nonostante il progressivo ritiro dei soldati stranieri.

A beneficiare del colpo grosso è in particolare mullah Mansour, l’uomo che ha sostituito mullah Omar come guida dei Talebani. Nelle scorse settimane, subito dopo l’annuncio della sua nomina, ha dovuto affrontare le fronde interne, i gruppi scissionisti, le accuse di «doppiogiochismo» e di scarsa autorevolezza. Ora può rivendicare un successo sul campo che, per quanto effimero, avrà ripercussioni rilevanti su tre fronti: sul fronte interno, cementerà la sua leadership; sul fronte dei «colloqui di pace», garantirà ai Talebani una posizione negoziale di maggiore forza rispetto al governo di Kabul; sul fronte internazionale, rischia invece di risultare controproducente.

I falchi del Pentagono e del Dipartimento della Difesa non aspettavano altro: la vittoria di Kunduz è il pretesto giusto per convincere l’amministrazione Obama a prolungare la presenza dei soldati a stelle e strisce sul suolo afghano.