Nel suo primo discorso sulla politica estera statunitense, giovedì al dipartimento di Stato, il presidente Joe Biden non ha menzionato l’Afghanistan.

Non è una svista, ma una scelta: Biden prende tempo, perché ancora non sa come gestire il difficile dossier afghano che gli ha lasciato in eredità Donald Trump. Per farlo, ha poche settimane. L’accordo tra Washington e i Talebani firmato a Doha nel febbraio 2020 prevede il ritiro completo delle truppe straniere entro la fine di aprile 2021. Ora sul terreno ci sono 2.500 soldati americani, progressivamente ridotti da Trump prima di lasciare la Casa Bianca. Cosa farne è questione dirimente anche per gli alleati degli Usa. Il 17 e 18 febbraio si terrà l’incontro dei ministri della Difesa della Nato e in quell’occasione Washington, al solito, dovrà dare la linea.

MERCOLEDÌ SONO STATE RESE note le raccomandazioni dell’Afghanistan Study Group, un panel bipartisan creato dal Congresso Usa nel dicembre 2019. Tra le raccomandazioni, quella di rafforzare la «condizionalità» del ritiro delle truppe, sostenere lo Stato afghano e le sue forze di sicurezza, e poi più diplomazia, anche regionale, per rendere fruttuosi i colloqui di pace tra Talebani e forze politiche afghane. In soldoni, gli esperti sostengono che seguendo l’accordo di Trump il Paese verrebbe consegnato in mano ai Talebani, che non avrebbero fin qui rispettato gli impegni di Doha, perché nel Paese c’è ancora violenza e il negoziato intra-afghano iniziato lo scorso settembre non ha portato risultati.

Biden dovrebbe posticipare il ritiro completo delle truppe, alzare la voce con i Talebani e cercare alleati regionali. Più facile a dirsi che a farsi. La difficoltà maggiore sta nel convincere gli studenti coranici ad accettare un prolungamento, per quanto breve – forse 6 mesi –, delle truppe straniere. Lo si potrebbe fare con ulteriori incentivi, dalla liberazione di altri detenuti alla rimozione dei barbuti dalle liste nere dell’Onu. Oppure con uno stratagemma che potrebbe costare la poltrona al presidente afghano, Ashraf Ghani.

PER I TALEBANI il principale ostacolo alla pace è Ghani. Sembrano pensarla così anche diversi politici locali: è stato formato un comitato parlamentare di 21 membri con il compito di dialogare direttamente con i Talebani, saltando la mediazione istituzionale dell’Alto consiglio per la riconciliazione nazionale, retto da Abdullah Abdullah ma controllato da Ghani. L’ipotesi al vaglio è quella di un governo a interim, che siluri Ghani, coinvolga i Talebani e dia il via libera al prolungamento limitato delle truppe straniere, per pochi mesi. Un’ipotesi che pare ben accolta a Washington e forse lo è anche in Pakistan – dove hanno sede le principali cupole talebane – e a Doha, dove ha sede l’ufficio politico del movimento. Per qualcuno, togliere di mezzo “il problema Ghani” è l’unica strada per convincere i Talebani alla revisione dell’accordo di Doha e, forse, ad accettare un cessate il fuoco.