«È con profonda tristezza che confermiamo che tre membri dello staff di Save the Children sono stati uccisi nell’attacco di oggi alla nostra sede a Jalalabad, in Afghanistan. Tutto il resto dello staff che si trovava nella struttura è stato tratto in salvo, mentre in quattro sono rimasti feriti nel corso dell’attacco e stanno attualmente ricevendo cure mediche». È con questo comunicato che nel pomeriggio di ieri l’organizzazione non governativa Save the Children ha dato notizia della morte di tre dipendenti, a cui va aggiunta quella di almeno un poliziotto e, secondo alcuni resoconti, dei cinque militanti che nella mattina di ieri hanno attaccato l’ufficio dell’organizzazione a Jalalabad, un’importante città a due ore di automobile da Kabul, verso il confine con il Pakistan.

L’assalto, rivendicato dalla «provincia del Khorasan», la branca locale dello Stato islamico di Abu Bakr al-Baghdadi, è durato più di 10 ore.

Si tratta di una tattica precisa: i militanti scelgono un soft target, un obiettivo civile facile da colpire e conosciuto a livello internazionale, e cercano di prolungarne l’assedio il più a lungo possibile, così da assicurarsi la copertura dei media. Vittime civili, inermi e innocenti, in cambio delle aperture dei telegiornali: è la spietata contabilità dei jihadisti del Califfo.

I talebani, che hanno subito preso le distanze dall’attacco, sostengono di essere diversi. Di battersi per la liberazione del Paese dalle forze di occupazione straniera. Dicono di avere un’agenda tutta domestica, nazionalista, di non seguire le sirene del jihadismo gratuitamente sanguinario e transnazionale del Califfo e dei suoi affiliati. Forse l’indirizzo strategico è diverso, ma i metodi sono spesso identici.

Pochi giorni fa sono stati i talebani – sebbene la componente più radicale e meno incline al compromesso, quella della Rete Haqqani – a colpire l’hotel Intercontinental di Kabul: diverse ore di assedio e di battaglia con le forze di sicurezza afghane, per un bilancio – ancora provvisorio – di almeno 22 morti civili.

Dall’inizio del 2015, il Califfo ha cercato di entrare con prepotenza nella delicata partita afghana: la «provincia del Khorasan» si è distinta per la ferocia degli attacchi, rivolti in particolare contro la minoranza sciita degli hazara e contro i civili. Ma già prima dell’ingresso del Califfo in Afghanistan, i civili sono sempre stati le principali vittime del conflitto, come testimoniano i rapporti redatti da Unama, la missione delle Nazioni Unite a Kabul.

Le organizzazioni non governative sono diventate un bersaglio privilegiato. Solo nel 2017, 17 operatori umanitari uccisi, 32 feriti, 47 sequestrati. È emblematica la decisione dello scorso ottobre della Croce rossa internazionale – simbolo di neutralità nei conflitti – di ridurre in modo significativo la propria presenza in Afghanistan, dopo decenni di attività sul campo.

Save the Children opera nel Paese centro-asiatico dal 1976, fornisce servizi a milioni di bambini, e ora ha dovuto interrompere temporaneamente le proprie attività. Per i barbuti del Califfo, si trattava di attività di proselitismo, punibili con la morte, per molte famiglie, di servizi fondamentali.

Il governo afghano, corrotto e paralizzato dall’antagonismo tra il presidente Ashraf Ghani e il quasi “primo ministro” Abdullah Abdullah, non riesce a garantire i servizi di base a tutti i propri cittadini. Ci sono aree rurali povere e dimenticate. Le tante organizzazioni non governative suppliscono, colmano il deficit di efficienza di uno Stato che si regge soprattutto sul sostegno – finanziario e politico – della comunità internazionale. Da cui arrivano le rituali condanne dell’attentato terroristico. Ma a molti afghani non sfuggono le contraddizioni, l’ipocrisia: perché chi condanna gli atti di terrorismo continua a ritenere sicuro il Paese, tanto da rimpatriare gli afghani arrivati, per esempio, in Europa?