È la storia di un’elezione più volte rimandata, poi contestata e boicottata, quella delle presidenziali che si tengono oggi nelle 34 province afghane. Un’elezione che, così auspicava Washington, avrebbe dovuto saltare, resa superflua dalla firma di quell’accordo tra i Talebani e l’inviato di Trump, Zalmay Khalilzad, che il presidente Usa invece ha sabotato il 7 settembre con un invito a sorpresa a Camp David rifiutato dalla guerriglia.

UN’ELEZIONE da cui ora dipende la stabilità del governo, il futuro del processo di pace, la residua legittimità delle istituzioni. Ma è anche la storia di candidati pronti a sbaragliare e poi tornati nell’ombra. Come l’ex consigliere per la sicurezza nazionale Hanif Atmar.

Prometteva di interrompere la saga tra il presidente in carica, Ashraf Ghani, e il Chief of executive officer, Abdullah Abdullah. Ma prima ha sospeso la campagna elettorale, poi annunciato il ritiro. Già antagonisti alle urne nel 2014, costretti alla coabitazione nel Governo di unità nazionale, Ghani e Abdullah sono i veri duellanti. Ma nella confusione c’è ancora il nome di Atmar e di altri candidati sulle liste che si aprono alle 7 per chiudersi alle 15. Sono solo 5.000 su più di 7.000 i seggi aperti. Chiusi per insicurezza gli altri: i Talebani annunciano di colpire duro.

A KABUL, ASHRAF GHANI promette sicurezza, incassa le accuse di corruzione che arrivano perfino da Washington e rialza la testa. Marginalizzato dalle trattative di Doha da cui era escluso, porta a casa un successo politico: lo stop al negoziato lo rafforza, lui che ha sempre sollevato dubbi e rivendicato un posto a tavola, mai concesso.

Lo ha strappato negando l’autonomia decisionale del team negoziale che avrebbe dovuto incontrare i Talebani a Oslo, dopo la firma tra Khalilzad e mullah Abdul Ghani Baradar, delegato di Haibatullah Akhundzada, il leader dei Talebani convinto da sauditi e pachistani a dire sì al negoziato, senza aver mai persuaso del tutto l’ala oltranzista del numero due del movimento, Sirajuddin Haqqani, che ora gongola.

ELEZIONI E NEGOZIATO di pace sono inconciliabili dicono tutti, tranne Ghani. Gli Usa volevano chiudere in fretta l’accordo e far saltare le elezioni, sostituite da un governo a interim più inclusivo ma Ghani ha tenuto il punto.

Ora crede di portare a casa un secondo mandato. A molti pesi massimi della politica locale l’idea non piace. Zalmai Rassul, ex consigliere per la sicurezza nazionale sotto Karzai, ha ritirato la candidatura e assicurato sostegno a Ghani ma c’è un potente fronte anti-elezioni guidato dall’ex presidente Hamid Karzai: «in una guerra imposta dall’esterno» le elezioni rischiano di creare caos, non stabilità. «Piuttosto che le elezioni, iniziamo i colloqui di pace», dice Karzai. Tenere le elezioni ora “è come chiedere a un malato di cuore di fare la maratona”.

Brogli, intimidazioni, violenza, corruzione della Commissione elettorale indipendente e un composito fronte del no: tanti gli elementi che fanno prevedere una bassa partecipazione al voto. Un bel problema per Ghani, che chiede consenso. Abdullah ha altri grattacapi. Ha faticato a convincere i maggiorenti del Jamiat-e-Islami, il partito a maggioranza tagica, che fosse lui il candidato giusto.

Il capo esecutivo del Jamiat, Atta Mohammad Noor, potente ex governatore della provincia di Balkh, in passato ai ferri corti con Ghani, si era alleato con Hanif Atmar, il candidato che prometteva faville. Poi l’alleanza è saltata. Atta Mohammad Noor ora dice di essere neutrale. Ma a Mazar-e-Sharif, capoluogo della provincia, gli uomini a lui vicini sostengono Ghani. Abdullah ci ha traditi, sostengono.

DI TRADIMENTO DELLA VOLONTÀ popolare parla, ancor prima del voto, Gulbuddin Hekmatyar, feroce jihadista riconciliatosi con il governo di Kabul. Canta vittoria. «Tanta gente ai nostri comizi. La nazione è con noi». Denuncia l’uso illecito delle risorse governative da parte di Ghani e minaccia: «Non costringeteci a tornare sul campo di battaglia». Ma nel confronto televisivo con Abdullah, disertato da Ghani, rassicura: «non intendevo quello». Per poi aggiungere, incalzato, che anche le donne possono giocare un ruolo nel Paese e nelle istituzioni. Ma senza esagerare. «Troppo emotive», sostiene il «macellaio di Kabul».