“Quella dei Talebani è soltanto propaganda. Invito tutti gli abitanti dell’Helmand a recarsi alle urne. Non abbiate paura. La polizia e l’esercito sono qui per garantire la vostra sicurezza”. Il governatore Naeem Baloch è tra i primi a varcare i cancelli della scuola Malalai, uno dei 142 seggi elettorali aperti qui, nella provincia meridionale dell’Helmand, nel profondo sud dell’Afghanistan dove la guerra continua a mietere vittime.

Sono passati pochi minuti dall’apertura ufficiale dei seggi, quando un lungo convoglio di jeep dai vetri oscurati, pick-up della polizia e blindati dell’esercito si infila nel portone di ingresso di questa scuola superiore nel quartiere periferico di Qata-e-Lagar. Naeem Baloch scende dalla jeep ed entra in uno dei seggi, salutando gli uomini in fila per votare. Si mette in posa per la foto d’occasione e, una volta fuori, rassicura la popolazione dell’Helmand. “Al primo turno, il 5 aprile, non abbiamo avuto problemi di sicurezza. Non ci saranno neanche oggi. Lo garantisco personalmente. I Talebani sono forti solo a parole, non ci fanno paura”, dice rivolto al drappello di giornalisti raccolti davanti a lui. Alla sua destra c’è la parlamentare Nasima Niazi, originaria dell’Helmand. E’ venuta a dare il buon esempio. Ha l’indice sporco d’inchiostro: il simbolo che ha votato e che non può più farlo (una delle misure adottate dalla Commissione elettorale indipendente per evitare le frodi e i voti multipli). Nasima Niazi usa parole enfatiche, dice che gli afghani stanno vivendo un momento storico, che la democrazia trionfa, che le donne devono votare. Poco prima però, al seggio, dopo aver ritirato la scheda si era diretta verso l’urna. Sono stati i giornalisti a ricordarle che avrebbe dovuto compilare la scheda, scegliendo tra Ashraf Ghani e  Abdullah Abdullah. 

Sarà uno di loro a sostituire il presidente Karzai, al potere dal 2001 e al quale la Costituzione vieta un terzo mandato. Abdullah Abdullah sulla carta è il favorito. Il 5 aprile, al primo turno delle presidenziali, ha sbaragliato tutti gli altri candidati, raccogliendo il 45% dei voti. Un soffio sotto la soglia del 50% più un voto necessari per evitare il ballottaggio. A sfidarlo è il tecnocrate Ashraf Ghani, che vanta un dottorato alla Columbia University, diversi anni di insegnamento nelle più prestigiose università americane, una lunga esperienza alla Banca mondiale e incarichi importanti nel governo post-talebano: è stato infatti ministro delle Finanze e, fino alla decisione di “scendere in campo”, responsabile della transizione, il processo con cui la responsabilità della sicurezza passa dalle forze internazionali alle forze afghane. Di fronte alle telecamere, rassicura la popolazione anche il generale Gulam Farooq Parwani, vice-comandante dell’esercito per la provincia di Helmand. All’interno della scuola Abdul Mateen, incontro Abdul Ahad Chopan, portavoce della polizia. E’ tranquillo e sorridente. Sostiene che non ci sia ragione per essere preoccupati. “Sono settimane che lavoriamo sodo. Abbiamo fatto in modo che ogni abitante dell’Helmand possa recarsi nei centri elettorali senza paura. Ci sono diversi ufficiali donne, così che anche le donne possano votare e sentirsi sicure. I Talebani non riusciranno a impedire il voto”, dice sicuro. Poi però ammette che è vero, “in 2 distretti su 14 non ci saranno seggi. Nel distretto di Dishiu e di Baghran la situazione è complicata, sono zone di confine con il Pakistan e di commerci illegali. Dal Pakistan arrivano i terroristi, da qui partono i carichi di droga. Comunque rimedieremo presto con un’offensiva militare”, assicura. 

Nel frattempo, alle sue spalle gli elettori si mostrano insicuri sulle procedure da seguire. Qui c’è anche chi vota per la prima volta, chi al primo turno ha preferito rimanere a casa. O chi è tornato a votare perché crede che “sia importante per il futuro del paese”. La pensa così Said Faizalahq, un commerciante sui cinquant’anni. Lo incontro all’uscita della scuola Shahid Abdul Samat Rohani. E’ dedicata a un giornalista di Lashkargah, ucciso a sangue freddo proprio qui in città. I colpevoli non hanno nomi. Il suo è bene in vista all’entrata della scuola, adibita a seggio elettorale. Said Faizalahq non vuole dire quale sia il suo candidato, ma ci tiene a dire che “la cosa più importante è che il prossimo presidente rappresenti tutte le comunità etniche, non una in particolare”. Qui in Afghanistan la guerra civile degli anni Novanta ha radicalizzato le differenze etniche, usate dai leader militari per fomentare l’odio.

Ancora si fanno i conti con l’eredità di quel periodo. Alla vigilia del voto molti si sono detti preoccupati che il ballottaggio potesse complicare le cose,polarizzando la società tra pashtun e non-pashtun. Abdullah Abdullah rappresenta infatti i gruppi di potere politico-militare del “nord”. E’ stato il braccio destro del leggendario “leone del Panjshir”, il comandante Massoud, oltre che leader del Jamiat-e-Islami, partito a maggioranza tajika. Ashraf Ghani è invece un pashtun, la comunità etnica maggioritaria. Il paese è molto  ambiato in questi anni, ma la geografia dei risultati del voto del primo turno descrive comunque una società in cui l’affiliazione etnico-linguistica gioca ancora un ruolo importante. 

Usciamo dalla scuola “Rohani” e ci dirigiamo in un altro seggio. Sono con un gruppetto di giornalisti di Lashkargah. Ci siamo incontrati alle 6.30 del mattino nella sede di quello che chiamano il “club dei giornalisti”. Un basso edificio color pastello a due passi dall’ospedale di Emergency. La giornata è cominciata con la colazione: una grande padella di uova fritte, condivisa tra tutti e accompagnata da abbondanti tazze di tè caldo. Si ride e ci si prende in giro. Il clima è conviviale. Le minacce dei Talebani sembrano lontane. Per strada, circolano solo poche macchine, quelle autorizzate, che vengono fermate e a volte perquisite dai poliziotti e dai soldati che presidiano gli incroci. Le vie di accesso alla città sono chiuse. Chiuso l’aeroporto. Solo qualche negozio è rimasto aperto. Per gli altri, serrande abbassate. I più piccoli giocano a pallone sulle strade deserte.

Ci fermiamo in un seggio periferico. Un signore dalla folta barba bianca e un turbante grigio-nero esce dal seggio. “Ho votato per Ashraf Ghani perché non ha mai ucciso nessuno, non ha mai combattuto e riuscirà a portare la pace nel paese”, mi dice Abdul Rahman. Nelle aree rurali, a Ghani viene contestato il fatto di aver vissuto più di vent’anni all’estero, di non aver difeso il paese dagli invasori, di aver vissuto nelle comodità degli Stati Uniti mentre la povera gente stentava a campare. Per Abdul Rahman non è importante: “basta che sia afghano e che sia un buon presidente. E sono sicuro che potrà esserlo”. Eppure Ghani ha già detto di voler firmare quel trattato bilaterale di sicurezza con gli americani che ad Abdul Rahman proprio non va giù: “quell’accordo non va firmato. Dobbiamo difenderci da soli, non dipendere dagli americani, di cui non ci si può fidare”, aggiunge.

Passiamo nella sezione femminile: qui come in tutto l’Afghanistan i seggi sono divisi per sesso. Ci sono poche elettrici. Molte di più le donne, spesso ragazze, che lavorano per la Commissione elettorale indipendente. Saqina Hassani ha 24 anni e parla un buon inglese. E’ appena rientrata in Afghanistan da un periodo trascorso in Malesia con una borsa di studio. Non indossa il burqa, ha solo il capo coperto con un velo, non si nasconde come molte delle sue colleghe. “Sono qui dalle 5.45 del mattino”, racconta. “Tutto procede bene, non ci sono stati tentativi di frode né altre irregolarità. Finora hanno votato 125 donne, ma molte altre arriveranno dopo aver sbrigato le faccende domestiche”. La ventitreenne Mariam Moussavi si dice soddisfatta “al 70%” per la partecipazione delle donne. Fa parte anche lei della Commissione indipendente, ma vuol dire la sua “come cittadina”. Studia a Kabul, all’American University. I capelli neri nascosti dal velo, il sorriso spontaneo e contagioso, Mariam pensa che oggi sia un giorno speciale: “il voto è un diritto e  un dovere. Per tutti. Oggi abbiamo un’occasione importante per decidere il nostro futuro. Spero che verrà ancora tanta gente”. Per lei, la priorità del prossimo presidente dovrebbe essere la sicurezza. Per ottenerla, “è inutile perdere tempo con il processo di pace. Si spendono soldi inutilmente. I Talebani vanno combattuti”. I Talebani non piacciono per niente neanche a Farzana Qayum, 19 anni, studentessa dell’università di Kandahar. “i Talebani hanno minacciato di tagliare il dito a chi vota, ma io non ho paura. Lasciamoli parlare. Ormai nessuno gli dà più retta. Sono contro l’istruzione, contro le università, contro il lavoro per le donne. Ma noi vogliamo cose diverse da quelle che vogliono loro: più scuole, più università e più opportunità di lavoro, anche per noi ragazze”. All’uscita del seggio incontro una donna che un lavoro l’ha trovato: è Tela Gula. Il fisico possente, un brillantino sulla narice destra e due nei disegnati sulla fronte e sul mento, Tela Gula è una poliziotta. Oggi deve controllare la regolarità del voto e perquisire le donne che vanno al seggio. Le accoglie in una stanzetta. Alza il burqa, poi le perquisisce. Non si sa mai che qualche “barbuto” non si travesta da donna. E’ già accaduto e potrebbe succedere di nuovo.

A differenza della giovane Farzana, Tela Gula pensa che con i Talebani occorra parlare, “altrimenti non si otterrà mai niente, e a rimetterci sarà tutta la popolazione”. E che per fargli abbandonare le armi serva dar loro  qualche opportunità: “qui manca tutto. Non c’è lavoro, non ci sono soldi, non abbiamo niente”. Anche lei non nasconde di aver scelto questo lavoro “per guadagnare qualcosa. Mio marito è malato e io devo sfamare i nostri figli”. Una delle figlie di Tela Gula vive in un distretto fuori città. “Non posso andare a trovarla, sarebbe troppo pericoloso”, ammette prima di rientrare nella guardiola. 

Subito dopo mezzogiorno, quando i 45 gradi di Lashkargah diventano insopportabili, con due colleghi afghani mi rifugio nell’unico ristorante aperto in città. Ordiniamo del riso. Subito dopo sentiamo un’esplosione. Veniamo a sapere che è un RPG finito dentro un’abitazione. A rimetterci è un bambino di 10 anni circa, subito ricoverato all’ospedale di Emergency, presidio fondamentale in questa zona di guerra. Rientriamo nel “club dei giornalisti”. Ne esco poco dopo per andare a visitare l’ospedale di Emergency (ma questa è un’altra storia). Con gli altri colleghi torniamo nei seggi quando la chiusura si avvicina, alle 16.

Assistiamo al conteggio dei voti. Qui è rapido, perché il numero dei votanti è più basso che altrove. In uno dei seggi i rappresentanti dei due candidati litigano. Ci si accapiglia sui voti, sulla regolarità del conteggio, su eventuali frodi. Ovunque, qui a Lashkargah, Ashraf Ghani ha raccolto più voti di Abdullah Abdullah. Ma l’Helmand è solo una delle 34 province afghane. E i risultati definitivi saranno resi noti tra qualche settimana, il 22 luglio. In attesa di conoscere gli esiti del voto, tiriamo un sospiro di sollievo: qui come altrove gli attacchi dei “turbanti neri” sono stati limitati. “Solo” una ventina i civili uccisi. Nessuno nella provincia di Helmand, pare. Il governatore ci invita nella sala stampa per una conferenza. Dopo una lunga attesa arriva con un lungo codazzo: il capo della polizia, dell’esercito, dei servizi segreti, della Commissione elettorale, etc. A turno, rivendicano il successo della giornata. “Questa mattina avevo annunciato che le elezioni si sarebbero svolte regolarmente, senza problemi. Così è stato”, dichiara il governatore Naeem Baloch. Finita la conferenza scappa via, accompagnato da una trentina di soldati e poliziotti, raggruppati sui pick-up. I Talebani oggi non sono riusciti a fare il colpaccio. Ma potrebbero farlo domani. Lo sa anche il governatore dell’Helmand, Naeem Baloch, che senza protezione non mette il naso fuori dal suo compound.