«Bismillah al Rahman al Rahmin», «nel nome di Allah il misericordioso e compassionevole…». Giacca di velluto nero su un vestito chiaro, orologio dorato al polso, Sultan Mahmoud Daqiq invoca il nome di Allah prima dell’ennesimo discorso elettorale. Di fronte a lui, su ampie poltrone di legno massiccio disposte lungo i lati dell’ampio salone ricoperto di tappeti, siedono una quarantina di uomini di tutte le età.

VECCHI CHE ACCAREZZANO la barba bianca e giovani quasi imberbi con aria assonnata, ansiosi di passare alla sala mensa dove viene servito riso e succo di frutta. «Sono un uomo onesto, un uomo d’affari di successo. Se ho deciso di candidarmi è perché conosco i bisogni della gente, le vostre necessità. Votatemi e mi prenderò cura di voi». Sopracciglia arcuate e testa glabra, Daqiq è uno degli 804 candidati che si contendono i seggi della provincia di Kabul nelle elezioni parlamentari di domani, sabato 20 ottobre. Rimandate per ben tre anni e mezzo, servono a rinnovare la Wolesi Jirga, la camera bassa del Parlamento. In totale, sono in ballo 250 seggi, di cui circa 68 destinati alle donne. I candidati sono più di 2.500 (ma qui i numeri ballano). Si vota per «province» (ma in quella di Ghazni non si voterà, ufficialmente per motivi di sicurezza) e il numero dei seggi attribuiti dipende dal peso demografico di ogni provincia.

KABUL È UNA PIAZZA importantissima. Qui più che altrove la partita è durissima. La città è tappezzata di manifesti elettorali. Per le strade si incontrano caroselli di macchine con altoparlanti che ripetono nomi e slogan dei candidati. «Per farsi conoscere e votare tra 804 candidati serve darsi molto da fare, con tutti i mezzi possibili», ci dice Daqiq – figlio di un noto procuratore generale – al termine del comizio. «Di incontri ne faccio di continuo. Dalla mattina alla sera. Ogni giorno vedo circa 500/600 persone. Ogni sera vado in una moschea diversa, dove presento le mie idee e il mio programma. Mi rivolgo a tutti: professionisti, operai, impiegati statali, giovani e vecchi, donne e uomini. Ho bisogno del voto di tutti. E tutti vengono qui a trovarmi».

La sede del suo comitato elettorale, protetto da alte mura di cemento e guardie armate, è nella cosiddetta Shahraq-e-Aria City, un quartiere residenziale costruito pochi anni fa a due passi dall’aeroporto, destinato a gente ricca come lui. Sultan Mahmoud Daqiq è uno dei tanti imprenditori candidati in queste elezioni parlamentari, le terze dal rovesciamento del regime talebano nel 2001. «A grandi linee potremmo dire che ci sono 3 tipi di candidati», ci spiega Aziz Rafiee, direttore dell’Afghanistan Civil Socity Forum Organization, una delle 5 organizzazioni locali che avranno il compito di monitorare sulle procedure di voto, organizzato e gestito dalla Commissione elettorale indipendente, della cui indipendenza nessuno sembra fidarsi.

«CI SONO GLI UOMINI D’AFFARI e di potere, ci sono i candidati legati ai signori della guerra e ai partiti maggiori, e infine ci sono i candidati realmente indipendenti». Sulla carta, gli indipendenti sono la maggioranza. Soltanto 205 (l’8% del totale) sono i candidati registrati come membri di un partito. Tutti dicono di rappresentare novità e cambiamento rispetto ai parlamentari uscenti, simbolo di corruzione. Ma le cose stanno diversamente.

«La retorica sui tanti candidati giovani è molto diffusa ma è poco fondata», ci spiega Thomas Ruttig, direttore dell’Afghanistan Analysts Network. «Temo che il prossimo parlamento possa essere peggiore dell’attuale: il processo di democratizzazione si è indebolito, in questi anni. Sarà un parlamento centrato sul denaro, con molti uomini d’affari con un background jihadi», legato ai conflitti precedenti. E con esponenti dei partiti più attivi: il Jombesh-e-Melli del vice-presidente Abdul Rashid Dostum, torturatore senza scrupoli, che manda avanti il figlio Bator nella provincia sicura di Jawzjan; l’Hezb-e-Islami dell’ex guerrigliero Gulbuddin Hekmatyar, che ha spinto alla candidatura il figlio Jalaluddin, oltre a uomini fidati; l’Hezb-e-Wadhat, partito a maggioranza hazara di Muhammad Mohaqqeq, anche lui ex-mujahedin diventato un pezzo grosso: ben due figli candidati in due diverse province.

L’IDEA CHE IL RINNOVO generazionale possa rinnovare anche la politica, che qui è sinonimo di corruzione, soprusi, accaparramento di risorse e denari pubblici, non regge. E in un contesto in cui non c’è uomo politico di rilievo che non abbia fatto ricorso alla corruzione, invocare onestà e cambiamento sembra un esercizio retorico, o un’ingenuità. Eppure, c’è chi ci spera davvero. «Sono convinta che la gente sappia riconoscere i candidati onesti da quelli corrotti e che, nonostante tutto, il voto serva davvero», ci dice Fareshta Farrah, già vice-presidente del Comitato olimpico, candidata che rivendica «14 anni di lavoro al servizio delle donne».

IL SUO UFFICIO ELETTORALE è una tenda colorata con una ventina di sedie all’interno di un parco per le donne nel quartiere di Macrorayan, costruito dai sovietici. «La nostra campagna elettorale è diversa. Non abbiamo soldi, noi. Punto alla fiducia conquistata in questi anni di lavoro, al riconoscimento del lavoro fatto».

E a slogan efficaci. Sono quattro i punti del suo programma, stampato su brochure: «gli uomini creano tante cose, ma le donne creano gli uomini», «meno chiacchiere, più fatti», «la nostra responsabilità è il futuro», «l’unica buona politica è l’onestà». Fereshta Farrah punta all’onestà, ma sa che ci sono molti altri mezzi per essere eletti. «Alcuni candidati distribuiscono soldi, cibo, promesse. Noi non lo facciamo». Si dice sicura che, a differenza delle precedenti elezioni, questa volta le frodi non ci saranno, o saranno parziali: «grazie ai sistemi di riconoscimento biometrico introdotti dalla Commissione elettorale, sarà difficile imbrogliare». Aziz Rafiee la pensa diversamente: «nonostante i tanti osservatori, inclusi i nostri, prevedo brogli. E poi c’è la questione-sicurezza: nelle aree insicure, meno accessibili, le urne potranno essere riempite a piacimento. Speriamo che la Commissione elettorale sia davvero indipendente, e che il governo non interferisca nel voto». La fiducia, da queste parti, è cosa rara. Gli elettori non si fidano dei candidati, i candidati non si fidano della Commissione elettorale indipendente (Iec) e dell’imparzialità del governo. «Ho una rete di 500 osservatori che sabato controlleranno il voto», precisa Daqiq. Che non sembra fidarsi neanche degli elettori, ai quali pure dispensa promesse, istruzioni di voto e cibo: «Tutti qui mi assicurano il loro voto, ma poi chissà», nota sconsolato prima di accogliere l’ennesimo gruppo di potenziali elettori.