Suo nonno era un uomo metodico, lavorava in studio mattina e sera, non alzava mai la voce e, soprattutto, amava il silenzio. Permetteva ai suoi nipoti di entrare nell’atelier, di toccare tavolozza e colori, pasticciare su fogli per gioco, ma poi i bambini dovevano sedersi in un angolo, in religioso silenzio e non disturbare quando suonava il campanello del «momento magico». Joan Mirò procedeva per balzi creativi: magari andava al Son Abrines di Palma di Maiorca solo per leggere i giornali e raccogliere un po’ di disegni del giorno prima. O anche solo per camminarci sopra, a quei disegni. O ancora, per guardare dalla finestra il suo bel giardino.
Il nipote di Mirò, Joan Punyet, racconta con parsimonia le storie di famiglia, ma questa volta acconsente: d’altronde si trova «fuori casa» in Olanda, a Amstelveen, nel museo-tempio del gruppo Cobra, i predicatori della forma libera, di quel gesto astratto sobillatore di mondi alternativi, che guardano ai pazzi, ai più piccoli, a preistorici compagni di visione. Suo nonno non aveva mai esposto insieme a loro; adesso il confronto è stringente e le consonanze estetiche ed emotive impressionanti. E poi, sono passati circa sessant’anni dall’ultima apparizione dei cieli surrealisti di Mirò in Olanda: era il 1956 quando lo Stedelijk Museum di Amsterdam gli rese omaggio in grande stile.

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Mirò «Sobretexim», 1972

Qui, nel museo dei Cobra (acronimo che indicava le città di provenienza dei «leader» Jorn, Constant, Appel e poi Alechinsky – Copenhagen, Bruxelles e Amsterdam) vengono presentate circa ottanta opere dell’artista catalano e una sessantina dei colleghi nordici, in un allestimento scenografico che ripropone anche la minuziosa ricostruzione dello studio di Palma di Maiorca (dove alla morte di Mirò, avvenuta nel 1983, è rimasto tutto religiosamente come era stato lasciato da lui stesso): nell’atelier ci sono anche nove quadri non finiti, mai espoti prima d’ora.

In più, questa retrospettiva particolare fa sbarcare nei Paesi Bassi una quarantina di oggetti personali, collezionati da Mirò con quel gusto versatile che lo caratterizzava (pescando nel bisogno di bricolage dell’infanzia), insieme a ceramiche, sculture, disegni su carta. La mostra, visitabile fino al 31 gennaio prossimo, è a cura di Katja Weltering (che dirige il museo Cobra) ed è stata resa possibile dalla collaborazione con la Fundació Pilar i Joan Miró a Mallorca.

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Alcuni oggetti della collezione di Mirò

Così l’espressionismo vitale e astratto dei Cobra – un movimento che nacque nel 1948 per reagire ai «canoni» tradizionali della pittura e della scrittura, molti furono infatti gli esperimenti di intrecci fra poesia e segno visivo – trova un suo controcanto nelle stelle e nei paesaggi celesti (e terrestri) che popolano le tele dell’artista spagnolo. L’universo che va in scena sala dopo sala affonda le sue radici nel mondo arcaico, nella ricchezza del repertorio iconografico delle culture africane, nelle leggende scandinave, negli spettacoli circensi e anche nella calligrafia giapponese. Così, alla costellazione poetica di Mirò, ai suoi simboli cosmici smarriti nell’aria, a quei corpi di fanciulle galleggianti nel vuoto come uccelli in volo rispondono serpenti, bambini, pupazzi, deformazioni della realtà scaturite da una cultura folk o dall’osservazione – in totale soggettiva – della natura stessa, sogni compresi.

Joan Mirò si recò nei Paesi Bassi per la prima volta nel 1927 e quando tornò nella sua Spagna dipinse diversi Interni olandesi, basandosi su riproduzioni – anche in cartolina – di alcune opere fiamminghe. Visitando i vari musei, l’artista confessò di essere stato rapito dalla sindrome di Stendhal: quei dettagli che sbocciavano dal buio delle stanze raffigurate nei quadri avevano rappresentato per lui un vero «shock», toccando le corde più profonde proprio a causa di quel perenne bilico tra realtà e illusione di cui erano intrise.

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Karel Appel «Hussars Child», 1950

Ma sarà il rifiuto delle convenzioni della pittura ad avvicinarlo al gruppo Cobra che, nel dopoguerra, andava riscoprendo fonti d’ispirazione nella cultura popolare, per sperimentare materiali e metodi nuovi in tutta libertà. Loro numi tutelari, infatti, erano Picasso e i cubisti, Klee e, naturalmente, Mirò. Anche per i Cobra, l’inconscio divenne la chiave per aprire (e lo scrigno per conservare) mondi paralleli. Con l’artista spagnolo condividevano l’allergia per gli «intellettualismi» surrealisti alla Magritte e Breton e andavano ricercando processi di creazione più spontanei.

Il danese Asger Jorn seguiva da vicino il lavoro di Mirò: nella galleria di Loeb a Parigi, dove era giunto appositamente per vedere i suoi lavori nel 1946 incontrò per caso Constant. Un incontro che, due anni più tardi, farà germinare, a un tavolo di un caffè parigino, quel manifesto che sancì la nascita di Cobra, il «serpente» che cambiava pelle, rovesciando l’arte europea.

L’imaginerie di Mirò aveva sparso i suoi semi nel vento e quei semi trovarono terreno fertile nelle lande nordiche. Alechinsky fu l’unico del gruppo ad avere un contatto diretto con lui. Gli chiese anche di contribuire alla pubblicazione di Roue Libre, nel 1971. Mirò rispose entusiasta e spedì un magnifico disegno.