]Dire che la retrospettiva Cukor, curata da Roberto Turigliatto (che le aveva qui dedicato un’ottima presentazione), sia stata importante sarebbe limitativo. Abbiamo assistito a varie retrospettive notevoli che hanno rivelato la vera importanza dei cineasti ben oltre la loro consolidata fama critica: pensiamo per esempio a quella che due anni fa Locarno dedicò a Minnelli, sottraendolo ai facili schemi di una poetica divisa tra sogno e realtà. Ma a quella retrospettiva arrivammo già consapevoli che gli schemi sul cineasta fossero stati superati dalle visioni dei suoi film, e la retrospettiva ne fu piuttosto una definitiva conferma. Per altri cineasti importanti si può invece ritenere che le attenzioni critiche ne abbiano reso evidente il carattere: così per esempio le letture di Cahiers du cinéma e Présence du cinéma per Hitchcock, Hawks, Lubitsch, Mizoguchi, Preminger, Walsh, Lang, Mann e Ray… o anche di Positif per Daves, Kazan, Wilder…
Vi sono invece cineasti che riescono sempre a eccedere le pur intelligenti attenzioni critiche già dedicategli. Si tratta dei massimi fari Rossellini, Dreyer, Ford, ma anche di certi autori di cui ci sembra che proprio oggi possiamo veramente capire l’importanza. Accanto a McCarey, Dwan e qualcun altro, Cukor è particolarmente emblematico, e la retrospettiva locarnese ha costretto giorno per giorno e proiezione per proiezione a una messa a fuoco anche quanti se ne sono occupati da tempo: da Jean Douchet (cui si deve insieme a Jean Domarchi la più tenace e intelligente attenzione presso i Cahiers  a Miguel Marías, Pierre Rissient, Chris Fujiwara, Mark Rappaport, Fernando Ganzo, che con Julio Bressane, enrico ghezzi e lo scrivente hanno introdotto alcuni film (con inoltre una testimonianza storica di Eisenschitz e le flagranze di Anna Karina e Jacqueline Bisset, al cui intervento abbiamo avuto la fortuna di assistere nel giusto «cadrage» che ne univa tutto il corpo, dai piedi affusolati al volto luminoso, giustissima eco di come Cukor inquadrava i corpi). Nessuno poteva adagiarsi negli schemi del «women director» o del professionista hollywoodiano: perché se Cukor «sa girare» non è certo con ciò che ci sorprende (come per un Curtiz, tanto per citare un altro cineasta di origini ungheresi), e se è davvero il maggior regista di attrici non è mai solo questo.
Locarno, senza poter includere i film non firmati (dove si celano capolavori comeDesire Me), è riuscita a presentare tutta la cinquantina di film diretti e firmati da Cukor, e le meraviglie nascoste si sono rivelate continuamente, ponendoci nella felice condizione di primi spettatori davvero consapevoli della grandezza molteplice del regista. Ci siamo resi conto che, seppur sempre inserito nelle età del cinema in cui ha agito (e quindi nei suoi studios, nei suoi generi, nel rapporto con le star), Cukor attraversa i tempi in assoluta libertà. Per esempioA Life of Her Own contiene nel 1950 non solo il titolo nouvelle vague che meglio lo riecheggia (Vivre sa vie) ma anche L’avventura e Hiroshima mon amour) ovvero i pilastri della cosiddetta modernità cinematografica di cui Cukor rivela la presenza già nella presunta epoca classica. Un film con una Lana Turner mai vista, il cui volto sembra sformarsi continuamente come in un Lynch, il cui corpo si muta in un gesto continuamente sessualizzantesi e desessualizzantesi. A tratti potrebbe essere un film di Ida Lupino, o di Ulmer, e il volgersi e tornare indietro finale della protagonista è tra i grandi momenti visti al cinema. Stiamo parlando di un film che abbiamo potuto recuperare solo in dvd, quelli visti a Locarno su schermo sono stati tantopiù flagranti.
Di Camille ci si è confermato nel finale lo stretto e continuo rapporto di Cukor col cinema di Dreyer. La morte della Garbo ferma nell’immagine il ricordo della morte della madre del regista, avvenuta poco prima, e già i suoi precedenti film (tutt’altro che sterilmente hollywoodiani) Little Women e Romeo and Juliet sono disseminati di dolorosi segni premonitori.
Subito dopo Camille Cukor realizza il suo film più felice, Holiday, in cui si rafforza la collaborazione con lo sceneggiatore Donald Ogden Stewart e il commediografo Philip Barry, la cui amicizia e collaborazione a teatro e nei libri si è delineata sulla scena culturale americana dagli anni ’20, finché questa presenza sarà espulsa dall’America maccartista, su cui Cukor si dimostra (in particolare con Keeper of the Flame, che fa un bel paio dialettico con My Son John di McCarey) il più consapevole rivelatore dell’apparire di una seconda guerra civile americana. Per Marías Holiday va persino oltre Cukor, ma in realtà ci accorgiamo che è la forza della regia di Cukor a farlo andare oltre la sua pur splendida sceneggiatura, così come Camille, ultimo film prodotto da Thalberg, ne eccedeva la già consapevole operazione produttiva. Donald Ogden Stewart meriterebbe un omaggio parallelo, che rivelerebbe l’ennesimo legame del cinema di Cukor con McCarey che egli giustamente ammirò (lo sceneggiatore collaborò infatti anche a Love Affair), ma rivelerebbe anche uno dei tanti impensati legami di Cukor con Rossellini, visto che Stewart diventerà uno tra i molteplici sceneggiatori di Europa ’51.  E lo splendido Bhowani Junction con Ava Gardner rivela echi di questo film di Rossellini nel modo in cui la protagonista si sottrae ai discorsi politici maschili. Il film, col titolo italiano Sangue misto, fu tra le nostre marcanti visioni cinematografiche dell’infanzia (con Maddalena di Genina e Qualcuno verrà di Minnelli) e rivedendolo ora in splendido CinemaScope ci sorprendevamo continuamente di come il suo ricordo ci si fosse impresso in modo esatto nella mente, inquadratura per inquadratura e gesto per gesto.
Ma, se il cinema di Cukor è fatto anche di cose che si ricordano con precisione (vale in particolare per Les Girls) è fatto allo stesso modo di cose che mai riuscimmo a vedere, anche dentro film visti più volte.
A Woman’s Face e Gaslight sono tra i massimi capolavori noir del cinema di epoca bellica, e l’ambientazione scandinava del primo (svedese come in Due esseri di Dreyer) ci riporta al rapporto col cineasta danese, di cui quei due film invertono la transizione da Vampyr  a Dies irae. Anche Gaslight è un universo di terrore: e pur amando gli Hitchcock coevi lo percepiamo oggi come più forte.
Ma è sorprendente come anche i piccoli film di Cukor celino non solo perfezioni di genere ma tracce di un percorso unico e personale dentro il cinema. Per esempio The Model and the Marriage Broker non è solo una splendida commedia centrata su Thelma Ritter, a un tratto diventa il film che meglio esplicita l’ateismo di Cukor: alla battuta su Dio che ha fatto nascere una splendida foresta di alberi segue la gelida domanda «ma chissà chi è che li fa morire?», e raramente abbiamo colto in un film una tale capacità di travolgere il proprio stesso registro.
Ciò ben spiega come Cukor sia potuto arrivare ai grandi film della vecchiaia come il miglior contemporaneo: The Chapman Report è il ponte tra The Cobweb di Minnelli e Lilith di Rossen nella rappresentazione dei corpi americani, Travels with My Aunt rende esplicito Mankiewicz, e il finale Rich and Famouscompie il cinema di Warhol e Morrissey che Cukor seppe ammirare. Perché, se egli fu talvolta spettatore ingiustamente severo dei propri film senza successo, o dei presunti tempi morti del cinema moderno, ciò non gli impedì di diventare in ogni momento il cineasta del respiro del cinema dentro la realtà.
Winged Victory nel 1944 non è solo uno dei tanti perversamente godibili film-spettacolo americani sull’impegno bellico, diventa il più feroce documentario di una guerra fuori campo. Cukor si occupò in modo meno diretto di McCarey delle vicende storiche, ma ne lascia oggi uno dei segni più forti. Anche i film di Ford travolgono le retoriche belliche, ma l’isteria latente di Winged Victory ci appare ancora più radicale.
Un cineasta dunque irrisolvibile in poche chiavi (e appunto andranno rivisti altri suoi film sfuggitici a Locarno, per meglio cogliere questa irrisolvibilità, per esempio la coproduzione sovietica The Blue Bird), ma tra queste chiavi Justine e Keeper of the Flame ne segnalano una essenziale, inclusa nell’ambientazione egiziana del primo quanto nella scenografia della casa dell’antieroe scomparso nel secondo (l’anno dopo gli oggetti post mortem di Citizen Kane): la figura della sfinge che continua a interrogarci.