Si moltiplicano gli appelli affinché il personale scolastico partecipi in massa alla campagna di test sierologici in vista dell’apertura delle scuole. Il pneumologo e membro del Comitato tecnico scientifico Luca Richeldi ha lanciato ieri un monito severo: «Questi insegnanti sappiano che non facendo questo test possono mettere a rischio la salute dei propri alunni». «Ritengo che il test sierologico per la ricerca di anticorpi anti Covid-19 – ha aggiunto più pragmaticamente Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dello Spallanzani – lo debbano fare tutti dal momento che è stato fortemente voluto e che lo Stato ha fatto un grande investimento».

GLI INVITI ARRIVANO dopo la denuncia del 25 agosto da parte del segretario generale della principale associazione dei medici di base (Fimmg) Silvestro Scotti, secondo cui il 30% dei lavoratori della scuola contattati avrebbe rifiutato il test. La denuncia era apparsa da subito piuttosto pretestuosa, tanto che lo stesso Scotti si era corretto nel giro di 48 ore: «In pochi giorni il dato del rifiuto si è dimezzato, è rimasto solo un 15% degli operatori a non accettare l’appuntamento».

E forse serviva a celare il fatto che i primi a rifiutarsi di somministrare il test erano stati proprio i medici. «Un no motivato – secondo Pina Onotri del Sindacato Medici Italiani che ha capeggiato la rivolta dei dottori anti-test – non tutti gli studi sono strutturati in modo tale che siano sanificabili e lì dove ci fossero dei positivi, il medico dovrebbe stare in quarantena e lo studio conseguentemente rimarrebbe sarebbe paralizzato».

Anche prendendo per buone le cifre di Scotti, l’adesione ai test del personale scolastico risulterebbe comunque molto elevata. Certo più alta di quella rilevata nella popolazione generale attraverso l’indagine nazionale di sieroprevalenza realizzata dall’Istat tra giugno e luglio, in cui il tasso di rifiuto aveva sfiorato il 60%.

A pesare sullo scarso appeal dei test ci sono i dubbi sul loro scopo: si tratta di un’indagine statistica, come recitano le mail che invitano gli insegnanti a sottoporsi ai test, oppure è una questione di sicurezza sanitaria, come sottolineano gli appelli degli esperti?

«Questi test sono importanti dal punto di vista dell’indagine epidemiologica» spiega al manifesto l’immunologa Antonella Viola. «Ma non sono uno strumento diagnostico, perché non servono a identificare le persone positive. Se una persona è negativa, potrebbe essere contagiata ma non avere avuto il tempo di sviluppare gli anticorpi, per i quali servono più giorni». Si sarebbe potuto fare altrimenti, per mettere in sicurezza le scuole? «Impensabile eseguire tamponi su tutti, personale e studenti. Si sarebbe potuto puntare sulla sorveglianza, visto che ora disponiamo di test rapidi come quelli utilizzati negli aeroporti» spiega Viola.

«Ci sono test che costano pochi euro, e che consentono di avere rapidamente una risposta quando si presentano casi con sintomi sospetti. Sappiamo che il tampone è tuttora il test con la sensibilità maggiore, ma non possiamo raccontarcela: non siamo ancora attrezzati per fare tamponi di massa».

PER LA VERITÀ, anche dal punto di vista epidemiologico lo scopo dei test non è ben chiaro. È vero che analoghi screening sierologici sono stati realizzati su altre categorie come operatori sanitari, forze dell’ordine, autisti: lavoratori “essenziali” attivi anche durante il lockdown. Ma quei test avevano lo scopo di misurare i fattori di rischio professionale e tutelare i lavoratori: un obiettivo oggi impraticabile con le scuole chiuse da quasi sei mesi.

ANCHE IN ALTRI PAESI la riapertura delle scuole è stata accompagnata da campagne di test, ma con modalità diverse da quelle italiane. In Germania, gli insegnanti hanno diritto a tamponi gratuiti e regolari anche in assenza di sintomi. In alcune scuole di Memphis, Tennessee, si sperimentano i test “collettivi”, effettuati su gruppi di campioni prelevati da più individui. Se un tampone di gruppo risulta negativo, un solo test basta per dichiarare “puliti” tutti gli individui. Solo se risulta positivo si scende in dettaglio con test individuali. Finché la prevalenza del virus è bassa, questo metodo permetterebbe di risparmiare un gran numero di kit diagnostici.

È un metodo caldeggiato anche dall’infettivologo Massimo Galli dell’ospedale “Sacco” di Milano: «Un conto è fare 30 tamponi – ha spiegato al Fatto Quotidiano – un altro è chiedere ogni 7 o 15 giorni a tutti i ragazzi un po’ di saliva, mettere il materiale insieme e analizzare questo campione». All’università di Tucson, Arizona, si sperimenta un sistema ancor più innovativo: i test vengono effettuati sulle acque reflue degli studentati. Secondo Ian Pepper, il microbiologo che ha elaborato il metodo e lo ha descritto alla Nbc, questo metodo ha un doppio vantaggio: oltre a risparmiare risorse, permette di individuare i casi positivi tempestivamente «fino a una settimana prima dello sviluppo dei sintomi».