Delle 368 persone che morirono nella strage di Lampedusa il 3 ottobre di due anni fa, 360 erano eritrei, gli altri 8 erano etiopi. Da quella strage, sotto la spinta dell’indignazione popolare, partì l’operazione Mare Nostrum che porterà agli attuali accordi europei. In tanti però non vollero indagare le ragioni per cui quelle persone fuggivan da quella zona del continente africano. Tra questi c’è il governo Renzi, che nell’estate dello scorso anno inviò l’allora viceministro degli Affari Esteri Lapo Pistelli (oggi vicepresidente senior dell’Eni) in Eritrea per «favorire il reinserimento nella comunità internazionale». Il risultato è che oltre il 25 per cento dei richiedenti asilo arrivati in Italia nei primi nove mesi del 2015 proviene da questo paese. Rispetto al 2014 si registra un incremento di quasi 3 punti, mentre le stime di varie organizzazioni (Unhcr e Oim in primis) parlano di una media di almeno 5 mila fughe al mese. Un’odissea che ha pochi eguali al mondo, legata alle condizioni in cui gli eritrei sono costretti a vivere, servi di un regime dittatoriale. Il dittatore è Isaias Afewerki: colui che ha dato ordine di sparare a vista contro chiunque tenti di varcare la frontiera per emigrare. Sinora quasi 400 mila eritrei su una popolazione che non arriva a sei milioni ha preferito sfidare il deserto, i trafficanti di uomini e di organi, le violenze, i ricatti delle organizzazioni criminali e il rischio di morire affogati in mare piuttosto che continuare a vivere in quell’inferno. Se ai 400 mila profughi aggiungiamo quelli della prima diaspora, si scopre che vive all’estero un eritreo su sei. Il paese sta perdendo intere generazioni, come ha denunciato anche la coraggiosa lettera pastorale firmata da tutti i vescovi in Eritrea in occasione della Pasqua 2014. È una sorta di lenta condanna a morte causata da una specie di omicidio-suicidio.
Come cerca di evidenziare il saggio di Emilio Drudi “Ciò che mi spezza il cuore”, pubblicato nel volume “Migranti e Territori” (Ediesse, 2015), i responsabili di questa tragedia sono in parte gli stessi esponenti della nuova classe dirigente uscita dalla guerra di liberazione vinta nel 1991 contro l’Etiopia e che, con la proclamazione ufficiale dell’indipendenza nel 1993, aveva generato speranze per l’intero continente africano.
Il recente rapporto della Commissione Onu del 2015 sui diritti umani non lascia spazio a dubbi. Il paese vive sotto un regime di terrore, violenza e violazione costante dei diritti umani caratterizzato da arresti illegali, pestaggi, torture, detenzioni abusive senza alcuna accusa specifica da cui potersi difendere, sequestri e uccisioni. In poche parole, uno stato-prigione con ben 361 tra carceri e centri di detenzione di vario tipo. Il Lazio, con lo stesso numero di abitanti, ne ha 12 in tutto. Per questo la stessa Onu definisce l’Eritrea come «la Corea del Nord dell’Africa». A fuggire sono soprattutto i giovani, spesso minorenni, ai quali, come afferma Drudi, la dittatura «ruba la vita, costringendoli in armi o al lavoro obbligatorio con un servizio di leva che dura decenni».
La nuova strategia dell’Ue e dell’Italia per gestire i flussi migratori è quella di esternalizzare i propri confini per trattenere con ogni mezzo i richiedenti asilo nei paesi di transito e ricorrere ai militari locali per impedire i passaggi dei disperati verso i paesi del Nord. Una prova terribile si è avuta alla fine di settembre 2014, quando tredici adolescenti tra i 12 e i 18 anni sono stati trucidati a fucilate a un posto di confine con il Sudan e fatti sparire in una fossa comune. Ne scrisse solo il manifesto. Delitti già noti quando, sulla scia della firma del Processo di Khartoum dell’ottobre del 2014, arrivò l’impegno del Fondo europeo per lo sviluppo a stanziare 312 milioni di euro in favore del regime di Asmara (2,5 milioni solo dall’Italia). È la riproposizione della vecchia politica del “dittatore amico” per tutelare interessi economici o geostrategici che, in questo caso, comprendono il problema dell’emigrazione dal Corno d’Africa verso l’Unione. Roma e Bruxelles giustificano questa scelta citando le «promesse di cambiamento» formulate dal regime. Promesse però senza impegni precisi e vincolanti e, soprattutto, senza che l’Ue abbia posto alcuna chiara condizione irrinunciabile. Ad esempio, l’attuazione della Costituzione democratica varata nel ’97 e mai entrata in vigore, libere elezioni, la liberazione dei prigionieri politici, il ristabilimento del ruolo del Parlamento.
Niente più che una finzione appare anche l’altro argomento addotto da Italia e Ue: l’impegno di istituire in Africa centri di raccolta per i profughi, sotto l’egida Unhcr, dove si potranno presentare le richieste di asilo. Non è chiaro, infatti, chi garantirà sicurezza e condizioni di vita dignitose in queste strutture. «Campi di questo genere sotto la bandiera Unhcr», rileva don Mussie Zerai, presidente dell’agenzia Habeshia, già candidato al Premio Nobel per la Pace, «in realtà già esistono, tra gli altri, in Sudan. Ma le forze di polizia che dovrebbero garantirne la protezione e la sicurezza sono spesso colluse con i clan che gestiscono il traffico di uomini verso la Libia e l’Europa o con le bande che sequestrano i profughi, sottoponendoli ad ogni genere di torture e pretendendo poi riscatti enormi per rilasciarli».