Li abbiamo scoperti nelle ultime biennali veneziane con le loro imponenti e colorate installazioni video, ricche di personaggi e di allegorie che preludono a catastrofi. ma in realtà il collettivo russo è attivo fin dal 1987 e ha realizzato centinaia di mostre in tutto il mondo. Stiamo parlando degli AES+F, acronimo di quattro artisti di diversa formazione: gli architetti concettuali Tatiana Arzamasova (1955) e Lev Evzovich (1958) – quest’ultimo ha anche un passato di regista e art director di film animati –, il grafico editoriale e pubblicitario Evegny Svyatsky (1957) e il fotografo di moda Vladimir Fridkes (1956), che si è aggiunto al gruppo nel 1995.

L’iperrealismo visionario di AES+F ha raggiunto il livello più alto soprattutto nella trilogia dello “spazio liminale”, composta da Last Riot (2005-2007), Feast of Trimalchio (2009-2010) e Allegoria Sacra (2011), progetti che si articolano non solo in installazioni mono e pluricanale, ma anche in una serie di opere ad esse collegate, che possono essere esposte insieme o separatamente: disegni, fotografie, still desunti dal video e perfino sculture.

Nel primo capitolo della trilogia, Last Riot, in un mondo post-ideologico in cui non c’è differenza tra vittime e carnefici, ragazze e ragazzi vengono ritratti nell’atto di massacrarsi a colpi di spade, pugnali, mazze da baseball, mitragliatrici, sulla cima di una montagna innevata, mentre su di loro volteggiano enormi rapaci (in realtà valchirie). Come in altri lavori del collettivo, qui la violenza è ritualizzata ed estetizzante, non scorre sangue, l’eros è anestetizzato e viene annullata qualsiasi differenza tra il genere maschile e quello femminile. Fotomodelli da pubblicità simulano il martirio di santi, mentre domina l’eleganza sinuosa dei gesti ripetuti all’infinito, accompagnati dalla reiterazione di suoni campionati. I paradisiaci paesaggi creati dagli AES+F, qui come altrove, sono suggestivi ma asettici, generati al computer (l’artificio che emula il naturale). Certo, queste azioni e composizioni iconograficamente rimandano agli infiniti San Sebastiano (figura che compare esplicitamente nel terzo capitolo, Allegoria Sacra), ai sacrifici di Isacco, alle numerose decollazioni. Ma se nella pittura in molti casi – pensiamo a Giuditta e Oloferne di Caravaggio – la violenza esplode incontenibile, nella pittura digitale in movimento degli AES+F tutto è congelato e trasfigurato. Su questo sfondo di mulini a vento e trivelle, di treni sospesi su ponti e aerei che solcano il cielo, la morte – perpetuata all’infinito – è un evento non meno temibile e terribile.

Ben più spettacolare è il successivo capitolo, rilettura ai giorni nostri dell’orgiastico banchetto raccontato nel Satyricon di Petronio. Feast of Trimalchio si suddivide a sua volta in tre parti, ciascuna proiettata in simultanea su tre schermi per un totale di 9 schermi. Ma c’è anche una versione monocanale in cui lo schermo è suddivido in 9 parti: in pratica tre strisce orizzontali di immagini. In alcuni momenti le strisce (superiore, mediana e inferiore) compongono un unico quadro; in altre il riquadro a destra e quello a sinistra presentano la stessa immagine (a pendant), mentre nel riquadro centrale vi è una terza immagine. Niente di nuovo, in fondo, è una modalità che c’è sempre stata dal Napoleon (1927) di Abel Gance in poi. Ma il mosaico creato dagli AES+F è più complesso, perché anche in ogni singolo riquadro vi sono elementi “montati” e incastrati tra loro mediante compositing. Il risultato finale è una costruzione di elementi speculari e simmetrici, sfondi architettonici e azioni performative, filmate sempre al ralenti, con continui movimenti di macchina, panoramiche destra/sinistra e alto/basso, carrellate in avanti e indietro. Un’architettura ritmico-visiva che contiene gran parte della pittura occidentale, dalle visioni prospettiche del Rinascimento italiano (il “formato” ricorda le tavole della città ideale) all’esattezza fiamminga di ritratti e nature morte. La fruizione ambientale di Feast of Trimalchio avvolge lo spettatore a 360° e lo frastorna, costringendolo a muoversi continuamente per abbracciare l’orizzonte visivo e cogliere la ricchezza di dettagli, ricostruendo una possibile narrazione. Ma anche la visione monocanale non è meno impegnativa, poiché ci obbliga a uno sguardo di insieme, spostare rapidamente gli occhi da un riquadro all’altro.

Nell’ultimo capitolo, Allegoria sacra (2011), il luogo principale è la sala d’attesa di un aeroporto, ovvero il classico “non-luogo”, spazio di transito tra la vita e la morte (il purgatorio), crocevia di varie culture e religioni. E’ il video più sincretista realizzato dal collettivo, allegoria della “sacra globalizzazione” in cui convivono arabi e cinesi, europei e africani. Ecco susseguirsi in una concatenazione a volte logica a volte irrazionale, una serie di quadri: un balletto con cinesi che spalano la neve della pista dove atterra un aereo-dragone; una battaglie tra centauri e jihadisti; teste che rotolano sul pavimento lucido dell’aeroporto accarezzate con grande sensualità da altrettante donne nel loro grembo. Attraverso il costante uso dell’immagine rallentata, che rende ancora più stranianti gesti ed eventi e metafisiche le atmosfere, AES+F racconta a modo suo la violenza ai tempi dell’ISIS e l’ossessione del terrorismo (un poliziotto fa esplodere un bagaglio incustodito). Il martirio degli occidentali prosegue, nella parte finale, per mezzo di guerrieri tribali; a confortare i martiri, tuttavia, oltre a un prete con la bibbia, sopraggiunge un’astronave da cui fuoriescono hostess, vestite come quelle della Pan Am di 2001 Odissea nello spazio.

Ma il regno del caos, preannunciato nella trilogia, viene instaurato nell’installazione più recente degli AES+F, Inverso Mundus (2015), concepita per 1, 3 o 7 canali e allestita nell’ultima biennale veneziana appena terminata su un unico lunghissimo schermo. Maiali che macellano uomini (finalmente un fiotto di sangue!); uomini che si caricano in spalla asini; femmine che seviziano maschi e altri paradossi visivi, conditi da un bestiario di animali fantastici che sorvolano – come dirigibili – una metropoli futuristica. Benvenuti nel mondo alla rovescia, nel solco di una tradizione letteraria e iconografica che dal Medioevo, passando per il Rinascimento, giunge fino ai giorni nostri.

Sono solo i lavori più recenti dei quattro artisti russi, i quali privilegiano ormai le opere multimediali, senza però tralasciare serie fotografiche e sculture. Installazioni video caratterizzate dalla rielaborazione della cultura visuale di massa: dall’estetica del videoclip al glamour pubblicitario, dalla logica simulativa e ripetitiva dei videogame al genere letterario-cinematografico fantasy, basato su effetti speciali e animazione al computer.

A fine settembre a AES+F è stato tributato il Premio Pascali, giunto alla 18° edizione. Tra le motivazioni – come si legge nel comunicato della Fondazione Museo Pino Pascali – c’è la loro capacità di contaminare i linguaggi della fotografia, del video e delle tecnologie digitali, creando grandi narrazioni che “esplorano i valori, i vizi e i conflitti della società contemporanea in ambito globale con riferimenti espliciti alla storia dell’arte del passato”. A cominciare dall’Allegoria Sacra, allestita nel museo di Polignano a Mare e visibile fino al 24 gennaio.

IL PIACERE “COLPEVOLE” DELLE IMMAGINI AD ALTA RISOLUZIONE

Conversazione con gli AES+F

Provenendo da diversi ambiti professionali, quando lavorate a un progetto vi suddividete i compiti oppure non c’è una netta separazione di ruoli?

Naturalmente è impossibile realizzare un progetto senza ripartirsi le competenze. Nell’ottica di un lavoro di gruppo condividiamo le nostre idee, discutiamo ogni aspetto, pianifichiamo il progetto e ci dividiamo i compiti. Ciascun membro del gruppo deve supervisionare quello che fanno gli altri. La combinazione delle diverse competenze fa parte della normale tradizione dell’arte. E’ fondamentale coniugare capacità differenti quando si ha a che fare con un grande progetto.

Mi rivolgo soprattutto a Tatiana e Lev: immagino che la vostra formazione di architetti sia fondamentale per concepire non solo lo spazio scenografico all’interno dei vostri film, ma anche l’allestimento delle vostre installazioni…

[Evzovich] Anche se, in realtà, non ho mai fatto davvero l’architetto, ritengo che questo tipo di formazione sia molto importante per il mio modo di pensare, così come è utile per il lavoro di squadra, per la gestione di progetti grandi e articolati.

Come nasce e si sviluppa un vostro lavoro dal concept fino alla realizzazione finale?

La cosa più importante resta l’idea di partenza. Poi c’è la raccolta di fondi che rappresenta una fase piuttosto snervante. Quindi si passa alla prima tappa vera e propria, che consiste nella preparazione: in particolare il casting, che deve essere molto professionale, infatti ci rivolgiamo ad agenzie specializzate. Tuttavia anche noi svolgiamo direttamente le selezioni, tra i nostri amici su Facebook ad esempio, per le strade o nei locali. Poi arriva il momento delle riprese, di solito molto breve, non più di due settimane per 12 ore al giorno. Infine la post-produzione, che – al contrario – richiede circa un anno di tempo. Questa tempistica differenzia il nostro lavoro da una normale lavorazione cinematografica, poiché i film hanno tempi più lunghi di riprese e più brevi di post-produzione. Ma, nel nostro caso, ciò avviene poiché alcune riprese sono fatte durante la post-produzione. Infatti noi prendiamo differenti attori per differenti giorni di ripresa, sovrapponendoli con gli sfondi simulati al computer. Appare evidente che il momento della post-produzione è quello decisivo. Inoltre per noi è importante non tanto realizzare uno script, qualcosa di scritto, bensì progettare idee visive, ovvero uno storyboard.

Dal numero di persone coinvolte (troupe e comparse), dalla ricchezza delle scenografie e dei costumi, dall’accurato lavoro di post-produzione, immagino che i vostri film siano costosi. Attraverso quali canali reperite il budget? Vi affidate solo alle gallerie o cercate anche nel mondo dei multimedia?

Beh, noi facciamo parte del mondo dell’arte, vale a dire il circuito di musei e gallerie. E’ qui che troviamo i soldi per la produzione da parte di collezionisti o investitori, i quali comprano i nostri film, le nostre immagini fotografiche e così via.

In futuro pensate di affidarvi anche al mondo della produzione cinematografica, magari realizzando un vero e proprio lungometraggio per il cinema?

Non abbiamo mai pensato di accedere al sistema della produzione cinematografica, anche perché avremmo bisogno di condizioni molto particolari: innanzitutto che le nostre idee non siano controllate dai produttori, i quali dovrebbero avere una visione artistica per lavorare con noi. Se si creasse una simile circostanza, forse potremmo realizzare un film.

I vostri lavori sono proiettati anche nei festival di cinema? Avvertite reazioni diverse da parte del pubblico del cinema rispetto a quello dell’arte?

Partecipiamo ai festival cinematografici e consideriamo il mondo del cinema sempre più interessato al nostro linguaggio e alle nostre idee, rispetto all’ambiente che per noi dovrebbe essere più affine, cioè quello della videoarte. I registi sono molto attratti dai nostri lavori e noi ci troviamo in sintonia con loro. Per quanto riguarda il pubblico è difficile saperlo con esattezza. Ci rivolgiamo a una vasta platea di spettatori provenienti da differenti parti del mondo e di diverse culture: dalla Cina all’Australia, dagli Stati Uniti all’Europa e così via. Il pubblico del cinema è simile a quello dell’arte ed è molto interessato ai nostri lavori, ma è difficile operare una distinzione, in termini di reazione.

Sentite di far parte del contesto dell’arte russa, ammesso che ci sia, oppure restate in fondo degli outsider?

Non siamo né outsider né insider. Ci consideriamo parte del più vasto e internazionale mondo dell’arte e, del resto, ora la Russia fa parte del mondo artistico globale.

Potete parlarmi un attimo del sistema di commercializzazione delle opere audiovisuali? Le vendete ai collezionisti e ai musei in forma “monocanale” a tiratura limitata, oppure sotto forma di installazione realizzando personalmente voi l’allestimento? O, ancora, le vendete sempre accompagnate da still, sculture e altre opere oggettuali a esse collegate?

Dipende. Per esempio di Feast of Trimalchio abbiamo venduto una versione installativa su tre schermi, ma anche una versione cinematografica monocanale in edizione limitata. Inoltre vendiamo fotografie che non sono still ma collage digitali ad altissima risoluzione. Ma commercializziamo anche still tratti da video e poi, naturalmente, sculture, ecc. Le fotografie hanno una loro vita autonoma, così come le sculture. Al Museo Pascali, ad esempio, abbiamo presentato due collage digitali come tre tondi e still unitamente alla proiezione di Allegoria Sacra.

Le opere fotografiche che esponete sono stampate dai frames dei film, oppure sono scattate sul set, cioè non corrispondono necessariamente alle inquadrature?

Per realizzare i collage digitali facciamo riprese diverse da quelle realizzate per il film. Si tratta di una lavorazione speciale, con spunti diversi, idee specifiche. Non le concepiamo semplicemente come un’estensione di un film, ma come parte integrante di un progetto complessivo.

I vostri lavori per essere apprezzati vanno visti molte volte, poiché sono ricchi di dettagli, ridondanti nel loro sincretismo visivo e anche nei simboli da decifrare. Qual è la modalità di fruizione che incoraggiate di più?

L’installazione è la parte più importante di un progetto artistico. Noi abbiamo due o tre versioni del lavoro, adatte per le diverse location e per i diversi contesti. Nel caso di Feast of Trimalchio, installazione a 9 canali per la Biennale di Venezia, lo spettatore ha avuto la possibilità di essere regista, scegliendo il punto di vista o guardando tutti gli schermi insieme. Questa è una delle modalità per presentare il lavoro e a noi piacerebbe stimolare lo spettatore a rivederlo più volte facendo caso ai dettagli. Nell’installazione monocanale, invece, si ha l’opportunità di vedere il lavoro proprio come se fosse un film. E’ sempre interessante giocare con le diverse opzioni e provare emozioni supplementari. Le installazioni circolari sono molto più simili alla nostra esistenza, come quando si è immersi totalmente in un evento. Del resto, anche nella realtà, si ha sempre la sensazione che qualcosa dietro di te sia più importante di quello che hai davanti. E devi cercare di catturare ciò che ti circonda: è un “effetto vitale”. Creare questo tipo di sensazione disturbante nei confronti dello spettatore è il tipico privilegio delle opere d’arte contemporanea. Quando si va al cinema, si paga il biglietto, si compra i popcorn e si sceglie un posto. Nel caso dell’arte è diverso, poiché le immagini si muovono e tu devi girare intorno ad esse per ottenere più segnali. Non si sta mai fermi.

Anche Inverso Mundus, allestita all’ultima Biennale è un lavoro di grande impatto visivo.

Siamo molto soddisfatti perché è stata presentata su uno schermo lungo circa 40 metri e lo spazio non era molto luminoso, così lo spettatore si sentiva un po’ a disagio poiché doveva dare le spalle al muro e non riusciva a contenere con lo sguardo tutta la superficie proiettata. E’ un po’ come quando ci si trova di fronte a un acquario e si guardano i pesci dai diversi lati della vasca. Molte persone ci ritornano più volte, forse non tanto per cogliere dettagli che sono sfuggiti, quanto per rivivere quell’esperienza.

Nelle vostre opere c’è una ricchezza di simboli, personaggi, citazioni artistiche e cinematografiche. Potete parlarci della vostra cultura visuale e delle vostre preferenze?

Potremmo essere definiti dei “predatori”, poiché siamo affamati di visualità e questa visualità è per noi estremamente importante. Ciò produce un forte effetto su noi stessi e sugli spettatori e non è rilevante quali siano le fonti, se provengono dai rifiuti del web, dal cinema, dai giornali o da qualche altra parte. Per costruire una convincente ricetta visiva devi avere ingredienti di prima scelta. E questo è certamente il nostro obiettivo.

Ci sono cineasti sperimentali o videoartisti – delle origini o anche più attuali – cui sentite più affinità?

No, perché non abbiamo come punto di riferimento la storia della videoarte. Non fa parte del nostro background. Amiamo piuttosto registi di cinema come Kubrick o Ejzenstejn. Dei contemporanei ci piace Paolo Sorrentino, con cui condividiamo lo stesso gusto per la visualità. Siamo inoltre molto influenzati dalla pittura, soprattutto da quella figurativa. Allegoria Sacra è per esempio ispirato a Giovanni Bellini.

E’ possibile dare anche una lettura politica dei vostri lavori? Penso al rapporto tra oriente e occidente, tra mondo cristiano-giudaico e mondo islamico…

Si, stiamo operando una riflessione sulle situazioni politiche di carattere religioso. A volte nei nostri lavori cerchiamo di decostruire gli stereotipi politici di destra e di sinistra. Allo stesso tempo non siamo attivisti, dunque il significato politico è solo uno dei tanti livelli possibili, poiché siamo convinti che l’arte non abbia un contenuto o un messaggio diretto di questo tipo. Dal nostro punto di vista l’obiettivo dell’arte è creare un’interpretazione politica della realtà. Naturalmente tutta l’arte è politica, fa parte della nostra vita. E’ molto più interessante per noi definire una dimensione visuale dal sapore politico, piuttosto che produrre opere d’arte dagli slogan o dai testi ideologici, magari vantandoci di fare un’arte particolarmente politica. Ci limitiamo a trasmettere immagini al pubblico, stimolandone le interpretazioni.

Altrove avete affermato di non essere fanatici dei nuovi media, eppure possedete una padronanza invidiabile delle tecnologie. Quanto conta la tecnica per voi, quella tecnica che – secondo uno studioso come André Bazin – rimanda sempre a una metafisica.

Per ciascun progetto scegliamo la tecnologia più consona all’idea che abbiamo in mente e il senso metafisico dell’operazione resta per noi il fulcro centrale. Pensiamo, infatti, che la tecnologia sia uno strumento per ottenere un forte impatto in grado di esprimere il senso dell’opera. Per noi l’arte è come una sorta di magia e gli aspetti metafisici sono fondanti per la creazione. In termini più espliciti, questa “tecnica metafisica” richiede di lavorare con immagini ad alta risoluzione. Inoltre, le immagini in primo piano devono avere la stessa risoluzione di quelle visibili sullo sfondo. Tutto ciò dona alle nostre composizioni uno strano effetto, fisico e metafisico, di un mondo senza gravità, un bizzarro immaginario che si regge su una specie di “sfumato”.

La scelta di utilizzare un’altissima risoluzione delle immagini e uno stile iperrealista che a volte sfiora quasi il kitsch, unita all’uso del ralenti, sembra dettata dall’esigenza di rendere più inquietante e sospesa l’atmosfera nei vostri video.

Nella domanda è già insita la risposta: il kitsch è fondamentale per noi in modo da poter essere sempre in bilico, sul confine, poiché le nostre esistenze sono sul bordo di questo kitsch. Inoltre è importante creare un’atmosfera molto speciale, come se non ci fosse la forza di gravità, poiché i nostri personaggi alludono chiaramente a maschere e a rituali sociali, quindi è indispensabile essere un po’ sgradevoli. Anche quest’impostazione è borderline: dare piacere allo spettatore e, al tempo stesso, disgustarlo. Lo abbiamo definito “piacere colpevole”!