«Cauterio su una gamba di legno»: così Jack London, nel romanzo fantapolitico Il tallone di ferro, definisce una soluzione inadatta a un problema vero. E falsa soluzione è, per decine di organizzazioni ambientaliste di tutto il mondo, il programma Corsia (Piano per la compensazione e riduzione delle emissioni climalteranti nel settore del trasporto aereo) che l’Organizzazione internazionale per l’aviazione civile (Icao) dell’Onu sta discutendo nel suo consiglio annuale in corso a Montreal.

Il problema è serissimo: il settore del trasporto aereo civile è responsabile da solo del 5% del riscaldamento globale ed è una delle fonti di gas serra che crescono più velocemente a livello globale. Secondo l’Unfcc (Convenzione quadro delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici) le emissioni del trasporto aereo civile sono cresciute dell’87% fra il 1990 e il 2014. E potrebbero triplicarsi da qui al 2050, ma secondo la stessa Icao la crescita potrebbe arrivare al 700%. La pesantezza aerea è incompatibile con gli obiettivi vincolanti di contenimento delle emissioni – anche se i voli internazionali hanno il privilegio di essere esentati dagli obiettivi di riduzione delle emissioni. Non per niente, nel suo saggio Heat il giornalista ambientalista George Monbiot ritiene che quasi ogni settore dell’economia possa arrivare a ridurre del 90% i gas serra (un abbattimento necessario per evitare la catastrofe), salvo il trasporto aereo.
In questo contesto, una lettera aperta firmata da 88 organizzazioni ambientaliste di 34 paesi spiega che «le regole in discussione per il Corsia intendono permettere alle compagnie aeree di dichiarare una crescita neutra sotto il profilo delle emissioni di gas serra a partire dal 2020 grazie al ricorso ai biocarburanti e alla compensazione del carbonio con gli offsets». Le 88 organizzazioni chiedono agli Stati membri di respingere i piani e, piuttosto, invertire la crescita esponenziale del settore aereo. Perché?

L’unico tipo di agro-combustibili adatto agli aeromobili e che si può produrre in enormi quantità deriva dall’olio di palma: uno dei fattori, si allarma Simone Lovera della Global Forest Coalition, «che guidano la deforestazione delle foreste pluviali, insieme all’espansione della soia, dei pascoli e del prelievo di legname; dunque i piani per accelerare la produzione di agro-carburanti per il trasporto aereo porterebbero alla morte di altre foreste». Tanto che «sul disastro ambientale provocato alle piantagioni, duecento leader comunitari e contadini indonesiani hanno recentemente mandato una lettera all’Ue e al governo del loro paese» ci dice Almuth Ernsting di Biofuelwatch. Le piantagioni di olio di palma coprono già 27 milioni di ettari di superficie a livello planetario, in gran parte in Malaysia e Indonesia, dove le coltivazioni si fanno strada a colpi di incendi della foresta. Nel solo 2015, la devastazione ha raggiunto livelli record rilasciando 1,6 miliardi di tonnellate di CO2.

Altro che green jet fuel. Secondo il documento Driving Deforestation della Rainforest Foundation Norway, uno scenario mondiale che prevedesse un consumo elevato di olio di palma legato alla politica dei biocarburanti, provocherebbe milioni di ettari di deforestazione e 7 miliardi di tonnellate di emissioni di CO2 in venti anni.

Del resto, l’accordo concluso il 14 giugno 2018 dalla Commissione europea, dal Parlamento e dal Consiglio sulla proposta di direttiva sulle energie rinnovabili, fra l’altro avvia un processo per eliminare-gradualmente l’olio di palma negli agro-carburanti entro il 2030; anche se il Parlamento aveva chiesto entro il 2020. Gli agro-carburanti di prima generazione da colture alimentari non potranno superare il 7% dei consumi finali per i trasporti su strada e rotaia. Nulla si precisa circa il settore dell’aviazione.

L’autunno scorso, gli Stati membri dell’Icao hanno respinto la soluzione dei biocarburanti avio proprio sulla base delle preoccupazioni relative all’olio di palma, ma gli ambientalisti temono di vederla rientrare dalla finestra.

La seconda parte della proposta dell’Icao e dunque dell’Onu si riferisce alle compensazioni od offsets: pagare per la riduzione delle emissioni in altri settori. Ma, spiega Friends of the Earth International, «non c’è modo di contenere l’aumento della temperatura globale entro 1,5°C rispetto all’epoca preindustriale – come deciso dall’Accordo sul clima concluso a Parigi nel 2015 – a meno che tutti i settori non abbattano rapidamente le proprie emissioni. Quindi, non ci può essere alcun ruolo per le compensazioni». Fa eco Biofuelwatch: «Invece di questo pericoloso greenwashing, per essere seri Onu e Stati membri devono affrontare e fermare il problema della crescita del trasporto aereo».

Un po’ diverso il punto di vista di Stefano Caserini, docente del Politecnico di Milano e ingegnere ambientale: «Sono d’accordo nell’attaccare l’uso del biocarburante, in particolare quello prodotto attualmente dall’olio di palma, ma non sono contrario in generale all’idea delle compensazioni alla base dell’accordo Icao: nel settore aereo non ci sono al momento alternative per ridurre le emissioni, ha senso ridurle dove costa meno (e ci sono anche benefici sociali) e scambiare i crediti».

Intanto, quella minoranza di terrestri che vola può calcolare sommariamente l’impatto climatico del proprio volo grazie al calcolatore dell’Icao https://www.icao.int/environmental-protection/CarbonOffset/Pages/default.aspx (magari confrontando con il calcolo sul retro di un biglietto ferroviario). Esempio: 1,2 tonnellate di gas serra emessi individualmente per volare dall’Italia in Messico. alla prossima conferenza mondiale sulla decrescita.

E parliamo delle sole emissioni dell’aviazione civile. Quanto a quelle degli aerei da guerra, il Pentagono è il singolo maggior emettitore istituzionale di gas serra al mondo. Finora le emissioni del settore militare sono esentate dagli obiettivi vincolanti di riduzione.