Traguardo di rilievo per il Barezzi Festival, che tra il 3 e il 14 novembre prossimi, giunge alla sua decima edizione. Un numero importante che viene festeggiato con un programma di tutto rispetto, costruito seguendo il codice genetico della rassegna. La quale prende nome da Antonio Barezzi, ossia colui che sostenne economicamente gli studi del giovane Giuseppe Verdi. Sul concetto di mecenatismo e sull’incontro tra suoni classici e contemporanei, è da sempre costruito il festival, inclusa anche l’attuale edizione, dedicata tra l’altro al critico musicale Vincenzo Raffaele Segreto, scomparso di recente e tra i primi sostenitori del Barezzi Festival. Che aprirà le danze giovedì 3 presso il Teatro Regio di Parma con due giganti del jazz come Brad Mehldau e Joshua Redman. Un concerto che desta un forte interesse a seguito della recente uscita discografica Nearness a firma dei due. Non da meno sono gli spettacoli che vedranno impegnati Theo Teardo con Elio Germano, Enzo Avitabile, Peppe Voltarelli. Il gran finale è affidato nel giorno di chiusura all’icona Philip Glass, il quale accompagnato da Maki Namekawa e Roberto Esposito, suonerà per la prima volta davanti al pubblico italiano i suoi 20 Etudes.

Stimolante è anche il versante pop-rock e electro della kermesse, che vedrà alternarsi tra gli altri sui diversi palchi Giardini Di Mirò, Julie’s Haircut, Aucan, Acid Arab e Gold Panda. Ad assumere invece un valore particolare, è l’esibizione di domenica 6 novembre all’interno del Teatro Pallavicino di Zibello, in provincia di Parma. Alle ore 18 salirà sul palco il pianista siriano Aeham Ahmad, divenuto universalmente noto come il «pianista di Yarmouk». Le fotografie del 2014 con lui e un suo amico intenti a trasportare in strada il pianoforte, sullo sfondo apocalittico delle macerie figlie della guerra siriana, han fatto il giro del mondo. Altrettanto è accaduto per i video che sulla piattaforma di You Tube mostrano Ahmad suonare tra strade dissestate e scheletri di abitazioni, a volte solo, a volte accompagnato da altri musicisti, come ad esempio suo padre, violinista. Nella strana magia che trasmettono quelle immagini, fuoriesce la leggiadria della musica contro l’abominio della guerra. Se ne è scritto e parlato molto di Ahmad, si continuerà ancora a farlo perché è una storia che entusiasma e ha il potere di lasciare stupefatti: l’arte contro il conflitto. E tutto questo in un’epoca di insicurezza e brutture, è una sferzata di freschezza e forse di speranza. Lo abbiamo intervistato e così si racconta il pianista: «Mio nonno arrivò dalla Palestina nel 1948, in fuga dalla guerra di allora. Da quel momento la nostra famiglia ha vissuto a Yarmouk. Mio padre di mestiere costruisce strumenti musicali e suona il violino. Mi ha insegnato a leggere la musica e mi ha dato un pianoforte. Per lui è stato davvero difficile garantirmi la possibilità di andare avanti, perché i soldi sono sempre stati pochi in famiglia. Ma io ce l’ho fatta e sono riuscito ad arrivare all’università per studiare musica. Allo scoppio della guerra in Siria, molti dei miei compagni di studio, appena possibile hanno lasciato il paese. Questo per me non è stato possibile, perché ancora oggi nella terza generazione della mia famiglia, non abbiamo passaporti siriani. Non ho avuto nessuna possibilità di uscire. Prima della guerra la vita era buona, anche per la mia famiglia. Yarmouk non sembrava un campo profughi, uno di quelli con le tende… non era come la conoscete oggi. Yarmouk è un sobborgo di Damasco con strade, case e posti di lavoro, una città normale. C’era tutto, dai negozi che vendevano strumenti musicali come il nostro, a scuole e ospedali, tutto il necessario per vivere una vita dignitosa. Poi è iniziata la guerra e siamo stati tagliati fuori da tutto: senza elettricità, senza forniture di acqua, cure mediche che peggioravano sempre più… e poi è entrato l’Isis in città».

Sembra uno dei tanti racconti di guerra che da ogni parte narrano la tragedia del conflitto in corso. Ed è veramente così: «I commerci di famiglia si fermarono completamente e io per sopravvivere, dovetti adattarmi a vendere un falafel di bassa qualità, fatto a base di semi per uccelli. Nel frattempo, la nostra gente moriva, sia di fame che in modo violento, a causa dei cecchini e dei bombardamenti giornalieri. Nonostante la situazione, ero riuscito a conservare con me il pianoforte… e come per avere ancora una speranza, iniziai ad uscire nelle strade distrutte, suonando per i bambini e per tutte le persone, per dare loro ancora un po’ di gioia. Sono riuscito a far questo fino a quando un cecchino uccise uno dei bambini che stavano cantando con me, e poi mi bruciarono il pianoforte. Vennero da me, dicendomi, ’Se ti vediamo ancora una volta suonare, ti tagliamo la gola…’. Capii che era il momento di scappare. Considerato che non avevo il passaporto, sono fuggito illegalmente, promettendo a mia moglie e ai figli di farli uscire appena ne avessi avuto la possibilità. Sono arrivato in Turchia, ho visto le persone annegare in mare… è stato orribile. Dopodiché la Grecia, la rotta verso i Balcani e alla fine, Monaco di Baviera. Durante tutto il viaggio non ero solo: con me c’era mio zio e ci siamo aiutati e sostenuti l’un l’altro».

La storia del musicista prosegue poi con l’arrivo in terra tedesca, dove viene fatto alloggiare assieme ad altri migranti in un motel nei pressi di Francoforte.

Il caso vuole che lì trova una vecchio pianoforte: inizia nuovamente a suonare e da quel momento non si ferma più, tenendo concerti in tutta la Germania. Dalla seconda metà del 2015 in poi, il «pianista di Yarmouk» canta e suona le storie che raccontano la sua vicenda, sia in chiave personale che collettiva. Canzoni con titoli chiari e netti come Come Back, Yarmouk Misses You e Take Me Home, che Ahmad suona davanti al pubblico tedesco. Ad ascoltare i suoi concerti va anche Angela Merkel e la Zdf gira un documentario su di lui. Notorietà che stride però con l’assenza per molti mesi, di documenti ufficiali.

Il musicista vive per molto tempo in una specie di limbo, non può lavorare ufficialmente e come se non bastasse, è solo. Alla fine, fortunatamente, le cose si sono parzialmente sistemate: «Da poco finalmente ho un passaporto. Sono molto felice. Ora posso lavorare, ho inciso un disco che sto portando in tour. Tutto questo mi permette di costruire la vita qui, in Europa. Riuscendo quindi a far vivere dignitosamente la mia famiglia che finalmente è riuscita raggiungermi… E questo conta davvero tanto. Purtroppo i miei genitori sono ancora lì. Mi mancano molto. È difficile anche stare senza gli amici di sempre. Alcuni sono morti, altri sono in prigione e non se ne ha notizia. Esattamente come mio fratello, che ci è stato portato via e non sappiamo che fine abbia fatto. Per ognuno di loro voglio suonare le mie composizioni. perché credo che la musica sia un linguaggio globale. E io prego per la pace. Per tutti».