È il 1969 quando Danièle Huillet e Jean Marie Straub arrivano a Roma con un’automobile carica di libri e il progetto di un film: Othon (Les yeux ne veulent pas en tout temps se fermer ou Peut-être qu’un jour Rome se permettra de choisir à son tour), a accoglierli, in via del Governo Vecchio, nei primi mesi del soggiorno romano, è la casa di Adriano Aprà che di quel film sarà poi il protagonista. Critico, fondatore della rivista «Cinema& Film», storico, sguardo infaticabile del Filmstudio, il cineclub – e molto di più – dove l’Italia politicamente cinefila scopre gli immaginari nouvelle vague e le sperimentazioni nel mondo, collaboratore di festival tra cui quelli di Salsomaggiore e la Mostra di Pesaro che dirige tra il 1977 e il 1998, direttore della Cineteca Nazionale dal 1998 al 2002, sceneggiatore, regista (Olimpia agli amici, 1970) e molte altre cose anche se lui, non senza un certo vezzo, preferisce chiamarsi – prendendo in prestito la definizione a Serge Daney – un «passeur», un traghettatore di immagini e di immaginari.

Straub e Huillet erano giovani, e ancora poco noti almeno in Italia dove avevano deciso di vivere. Racconta Aprà: «Ci eravamo conosciuti qualche tempo prima, in un festival a Mannheim, avevano fatto vedere a me e a qualche altro amico Machorka-Muff (1962) e Non riconciliati (1965). Ma erano in tedesco e anche se Jean Marie ce ne aveva mostrato dei fotogrammi spiegandoci di cosa si trattasse non avevamo capito molto».
E dopo? Alla Mostra di Venezia c’è stata una proiezione dei loro film- «Mi sembra di ricordare che l’aveva pagata Godard » – dice ancora Aprà – intanto i due registi hanno deciso di lasciare la Germania dove vivevano, fare film per loro lì è difficile, Non riconciliati era stato attaccato ferocemente dal pubblico e dalla critica soprattutto per quanto diceva sulle radici del nazismo e sulla sua continuità nella Germania del dopoguerra e della ricostruzione. Al punto che l’editore tedesco del romanzo di Böll a cui si ispira – Biliardo alle nove e mezza – ne chiese il ritiro.

In Italia rimarranno fino al 2006, sempre a Roma, a lungo nel centro storico di piazza della Rovere, e poi nella periferia aspra del Tufello. «Io vivo qui perché avevo un progetto di film, questo Corneille, e anche un altro, il Mosè e Aronne di Schönberg per il quale avevo bisogno del paesaggio italiano» – dirà una volta Straub, e quel luogo, il Palatino e la terrazza sul Circo Massimo dove si svolge Othon, lui e Danièle lo avevano negli occhi da una vacanza romana di molto tempo prima. È lì, su quelle pietre, che la Storia ha lasciato la sua impronta, la lotta e le ambizioni del potere nella Roma prima di Cristo della tragedia di Corneille, scritta nel 1664, e quelle della contemporaneità che riverbera sulle rovine, vi si specchia, ne respira il tempo.

Gli attori indossano abiti d’epoca, il passato diviene il presente nella figura di un narratore: «Quando si mescola la finzione a una immagine documentaristica si crea un conflitto che può produrre una scintilla» diceva Huillet. Othon è riproposto nella selezione dei cinquant’anni del Forum di Berlino, che nasce anche dall’esigenza di ripensare il ruolo della sezione e più in generale il significato di un cinema indipendente. Ne parliamo con Adriano Aprà che nel frattempo continua la sua attività di «passeur» con Fuorinorma, un’iniziativa che va avanti da tre anni, e che insieme alle proiezioni di film italiani poco visti propone una mappatura teorica delle tendenze nel nostro cinema.

Cosa ricordi del set di «Othon»?
Abbiamo fatto due mesi di prove, tra giugno e luglio, e il film è stato girato in modo abbastanza rapido. Avevo imparato il testo a memoria, come tutti gli altri attori, però un giorno qualcuno di loro continuava a inciampare nella recitazione, e Jean Marie ha fatto ripetere la scena all’infinito; anche io una volta ho interrotto il ciak perché credevo di essermi sbagliato, è una cosa che non si deve mai fare – me lo spiegò poi Danièle. Infine alla cinquantesima ripetizione Straub ha detto: ’Va bene’. Mi avevano proposto di fare il film quando stavano a casa mia, io avevo girato Olimpia agli amici con Olimpia Carlisi, l’avevo suggerita per un ruolo maggiore ma gli attori dovevano parlare francese.

Il film verrà riproposto al Forum, durante la prossima Berlinale, nel programma dei 50 anni, che vuole essere anche come una riflessione sul identità del Forum e del cinema «indipendente».
Ulrich Gregor (il fondatore del Forum insieme a Erika Gregor, ndr) venne a Roma al Filmstudio, rimase molto colpito dal nostro lavoro e mi chiese di scegliere un pacchetto di film italiani da proiettare a Berlino. Ma i festival allora non erano dei mercati, c’era una grande libertà di programmazione. Il Forum in particolare era un punto di riferimento per tutti quei registi indipendenti che lavoravano in cinematografie meno conosciute, per farti un esempio si deve a Gregor la scoperta del cinema sudcoreano, lui era un vero «segugio», io ho preso molto dal suo modo di lavorare.

Tu eri un critico ma eri anche molto vicino agli autori. Ho l’impressione che questa prossimità non esista più e che nella relazione con i registi sia subentrata la figura del «programmer».
Ma il critico che scrive dei film non destinati alla sala, a parte pochissime eccezioni, non esiste più , ormai funziona il principio che se un film esce se ne parla altrimenti niente. Per la prima volta si è creata una separazione netta tra i film nei circuiti «normali» e quelli fuori, non riconosciuti dall’industria e dalla critica. Nel mio caso ho sempre programmato in festival, rassegne, aiutando così i film a circolare.

Secondo te negli anni ’70 era più facile per i registi indipendenti o sperimentali trovare degli spazi, lavorare?
Il cinema era molto creativo e gli autori che facevano film «differenti» avevano delle vetrine sicure nel Forum appunto, nella Mostra di Pesaro o nella Semaine de la critique di Cannes, ora tutto mi sembra molto più fluido. La vera differenza però è che gran parte di quel cinema era prodotto all’interno dell’industria, sia in Italia che all’estero poteva permettersi di sostenere film che oggi sarebbero esclusi. Il digitale ha cambiato moltissimo le cose, la pellicola aveva dei costi mentre col digitale chiunque può fare un film. Gli stessi Straub e Huillet che a quel tempo non erano così famosi avevano i problemi di qualsiasi giovane oggi. Straub girava con delle pizze 35mm pesantissime, adesso invece basta un link. Forse è anche per questo che i festival fanno più fatica a selezionare i film a micro-budget, ciò obbliga a un’esplorazione mondiale complicatissima, o forse la gente ha meno voglia di scoprire. Nel mio lavoro di «passeur» provo a compensare questa mancanza continuando a cercare nelle pieghe della produzione.

Il risultato è Fuorinorma una rassegna alla quale lavori da oltre tre anni.
Da quando abbiamo iniziato «Fuorinorma» è diventato quasi uno slogan, se ne parla, abbiamo fatto almeno 300 proiezioni solo a Roma. Vogliamo passare a una fase successiva, che è una piattaforma su cui questi film potranno essere visti per una cifra modesta, molto meno del costo di un biglietto al cinema. Anche questo è un segno che il sistema cinema è cambiato, che c’è una diffusa insoddisfazione su come fare film di finzione e documentari. Vedremo, ho ottant’anni e sono stanco di essere l’avanguardia. Spero che arriverà qualcuno più giovane di me con la stessa voglia di esplorare.