Chi son? Sono un poeta. Che cosa faccio? Scrivo. E come vivo? Vivo!, cantava Rodolfo nel primo atto della Boheme. Qualcosa mi dice che Adriana, per sé stessa, non avrebbe usato parole molto diverse a chi le chiedesse di presentarsi. Sosteneva di essere ricca di doni, debitrice di molti, a cominciare da Dio e dalla natura prodiga di offerte vitali. Era convinta che la povertà, il distacco dagli ingombranti beni materiali, fosse condizione indispensabile della libertà. La sua povertà, però, disconosceva la vita bisognosa, disordinata e scapigliata dei bohémiens. La sua povertà non era l’amaro calice della vita d’artista e neppure una scelta ideologica. Era piuttosto la coerente risposta all’istanza evangelica di una povertà interiore, concernente l’essere e non l’avere; di una povertà in spirito (Matteo 5,3), componente costituzionale della religione cristiana. Mai indigentem, mai mancante, al contrario sempre integrata dalla pienezza della vita e dalla terra. A quella terra Adriana era aggrappata con amore disperato: Signore, non voglio il tuo cielo/voglio la mia terra/ le strade, i pozzi, le fontane.

Ad un giornalista della televisione svizzera, che le domandava cosa avrebbe chiesto a Dio, rispose: «Gli chiederei qualcosa sull’aldilà. Gli direi: non fare scherzi. Io voglio trovare le mie rose, i miei gatti e tutto quello che ho amato sulla terra». Ovunque, si sia insediata, la sua povertà, ha fatto fiorire “paradisi”. Paradisi che hanno incantato dozzine di riviste di giardinaggio, col solo dispendio di pochi semi e tanta capacità immaginativa.

La grazie del suo sguardo sapeva riconoscere il bello anche nello scarto e non erano pochi gli oggetti di rara bellezza che Adriana tirò fuori da una pattumiera.

A chi abbia avuto la fortuna di visitare il suo appartamento, ricavato da un deposito di grano, presso Crotte di Strambino, non sarà sfuggita la straordinaria cura riservata da Adriana al suo spazio abitativo: amava correggere la natura e piegare le brutture alla bellezza, all’armonia.

Era una sua maniera di pregare Iddio, seminare, dipingere, riaggiustare un tetto sgangherato e posarvi rose dai petali bianchi e profumatissimi, iris, omelette, clamatidi viola.

Uno strano eremo quello della Zarri, un deserto incantevole, “e pieno di poltrone”, come amava dire lei, niente affatto amante delle clausure e dei ritiri dettati da ragioni protestatarie o contemplative; aveva in odio le posizioni doloristiche, la preghiera in ginocchio, le privazioni, i digiuni, la disciplina monastica, sprezzante del comfort e della bellezza. «In certi conventi usano ancora recitare rosari a braccia alzate. Un tempo l’ho provato anch’io e credo proprio di non aver pregato, ma solamente faticato. Con la schiena tesa e i muscoli tirati come corde, tutte le energie erano concentrate nello sforzo; per la preghiera non restava animo né possibilità. Perciò, poltrone, poltrone, poltrone».

Un bizzarro eremo, quello della Zarri, con grosse finestre e porte sempre schiuse al mondo, un sonaglio all’ingresso per chi volesse annunciarsi e confrontarsi con lei. Nel 1978 ad agitare quel sonaglio fu Marco Pannella, proponendole di essere tra i dieci firmatari occorrenti per la richiesta di abrogazione degli articoli del codice Rocco, che inserivano l’aborto come grave delitto contro la purezza della razza. A proposito del leader dei radicali, la Zarri sarà tutt’altro che clemente. In Dedicato a (p.31) scrisse: «Benché certe battaglie vadano talora fatte insieme con compagni non sempre congeniali, oggi mi darebbe ombra l’appoggio di un partito che si è andato via via deteriorando ed anche il personale avallo di Pannella». Raccontò del suo viaggio verso Roma, del suo incontro con Marisa Galli, «suora e donna di grande dirittura», che al tempo giusto seppe prendere le distanze dai radicali, ma fu cacciata dalla sua congregazione per motivi politici. Erano Adriana e Marisa le uniche credenti tra quei dieci firmatari, ma seppero marcare la distanza e fare la differenza: la macchina si mise in moto e, col contributo prezioso di altri cattolici, la nuova legge fu promulgata.

Dieci anni dopo, il 22 maggio 1998, Giovanni Paolo II sferrò un durissimo attacco contro la 194, denunciando la morte di tre milioni e mezzo di bambini, soppressi, a suo dire, con il favore della legge.

Dedicato a fu concepito in risposta all’intervento del pontefice e contro i “guardiani del sabato”, custodi di un cristianesimo legalistico e impietoso: «Dopo tanti anni ci risiamo, vecchi argomenti si ripetono, qualcuno nuovo se ne aggiunge; ed io sono ancora qua, infastidita e forse anche costretta perché oggi, se si tocca la legge si peggiora ed io non voglio vederla peggiorata, e le donne ricacciate nella clandestinità a risolvere da sole il loro dramma, come da secoli, come da sempre». Ma la posizione della Zarri in favore del diritto all’aborto era, come sempre, sui generis: denunciava sì il curioso e contraddittorio andamento del Magistero in materia di aborto, ma prendeva le distanze dalla frase più sbandierata dalle femministe, che pure appoggiava, «l’utero è mio e lo gestisco io», che trovava grossolana e sboccata, e molto vicina alle pretese del liberalismo privatista che aveva della libertà un concetto «individuale e incontrollato», addirittura «borghese». Dire «il ventre è mio e ne faccio quello che voglio» le sembrava l’equivalente sessuale di chi diceva «la fabbrica è mia e nessuno si impicci: apro, chiudo, licenzio».

Sui generis anche il suo amore per la natura e gli animali. Il 15 maggio 1986 ammise su Rocca una crisi da sempre sospesa: dichiarava apertamente il suo scetticismo per l’ipotesi vegetariana e l’illusione da molti coltivata di condurre un’esistenza dispensata dal delitto. «Noi uccidiamo in continuazione. Quando diserbo l’orto uccido(…), quando prendo gli antibiotici uccido, quando cammino uccido». Eppure, aggiungeva, «ciò non significa che l’uccisione dell’animale sia un diritto inalienabile che l’uomo possa rivendicare a cuor leggero».

Ma la verve polemica di Adriana arrivò al grande pubblico soprattutto grazie alla sua partecipazione fissa a Samarcanda di Michele Santoro, con i suoi maglioni goffi e coloratissimi e la sua crocchia grigia, in una stagione politica intensissima, che vide la caduta del muro di Berlino, tangentopoli, le stragi di mafia. I protagonisti dei suoi editoriali erano quasi sempre animali che volevano significare uomini o, meglio, uomini che per temperamento, grossolanità, vigliaccheria le chiamavano alla mente un animale da lei conosciuto o di cui aveva solamente letto su qualche bestiario. È il caso del “cagnolino di Berlino”, personaggio della sua favola più chiacchierata, che gli valse le prime pagine di quotidiani a grande tiratura. Un cagnolino proveniente dalla Germania dell’est che fece «una pisciata politica sul terreno capitalista» e «su un benessere destinato solo ai privilegiati». Beniamino Placido scrisse parole di fuoco contro quel “discorsetto” e contro l’uso politico del genere della parabola, assai caro alla letteratura cristiana.

Dopo il 18 novembre 2010, molte testate nazionali pubblicarono un necrologio dedicato alla “teologa”, “giornalista” ed “eremita”: il manifesto pubblicò la sua ultima parabola, rubrica che curava da anni per questo giornale. Parlava del politico e giornalista cattolico-sociale, Alex Langer, e dell’albicocco al quale era finito impiccato. «L’albicocco è un albero fruttifero, che parla di vita e non di morte, pare che Langer, nello scegliere quella pianta, volesse alludere a un di là che attende tutti, credenti o no che siamo. Leonardo Boff, religioso e teologo, scrive: “sono certo che Dio abbia concesso l’eternità della vita al nostro caro Alex”». Uscì di scena così, l’indomita Adriana, parlando di un suicida e di un albicocco. Una netta, chiara, inequivocabile professione di libertà di una teologa cattolica che al “sabato” ha sempre preferito «questa vita», «questa terra» e gli uomini.