Dopo 28 anni di assenza Adriana Lecouvreur è tornata al Teatro Comunale di Bologna. Originariamente previsto per lo scorso maggio ma sospeso a causa dell’emergenza sanitaria, il nuovo allestimento del capolavoro di Francesco Cilea, prodotto insieme a Rai Cultura, registrato a porte chiuse a inizio febbraio e trasmesso da Rai5 (ora disponibile su Raiplay), è stato realizzato seguendo la formula del film-opera, rispolverata da Mario Martone col recente Il barbiere di Siviglia per Roma e somministrata di frequente come terapia di prima linea per tenere in vita il teatro lirico ai tempi del covid.

ASHER FISCH SCAVA nella partitura cercando finezze armoniche e abbandoni melodici, ottenendo una preziosa rotondità di suono che avvolge la storia in una languida atmosfera «fin de siècle» e la scandisce con ritmi trasognati fino all’estenuazione. I cantanti si disimpegnano con trasporto nei rispettivi ruoli: vezzosa e gelosa come Tosca l’Adriana di Kristine Opolais, generosa di voce, seppure con passaggi di registro talvolta stimbrati e un po’ acidi; spietata come Eboli e Amneris la Principessa di Bouillon di Veronica Simeoni, omogenea e sfogata dal grave all’acuto; poco consistente il Maurizio di Luciano Ganci, con acuti talvolta schiacciati; paterno il Michonnet di Nicola Alaimo, un po’ in difficoltà nelle note più alte. La vera sorpresa dello spettacolo è nella regia, curata sul versante teatrale da Rosetta Cucchi e su quello televisivo dall’infaticabile Arnalda Canali, impegnate a costruire una drammaturgia che ibrida con grande efficacia sintassi scenica (movimenti degli attori) e sintassi audiovisiva (movimenti delle camere e stacchi di montaggio), facendo di Adriana una creatura che, come Orlando di Virginia Woolf, attraversa epoche diverse e cambia pelle a ogni atto. Nel primo è la «tragédienne» realmente esistita, che a metà 700 rivoluzionò la recitazione ricercando un’espressività il più possibile naturale, còlta in un retropalco mentre si prepara a debuttare in Bajazet di Racine; nel secondo è un’attrice romantica di metà Ottocento simile a Sarah Bernhardt, che si cimentò spesso col ruolo di Adriana nella tragedia di Legouvé e Scribe cui si ispira il libretto dell’opera; nel terzo è un’attrice cinematografica di inizio Novecento simile a Yvonne Printemps, protagonista di uno dei primi film muti ispirati alla Lecouvreur.

NEL QUARTO ATTO, la folgorazione: nella Parigi del 1968 attraversata dalle proteste degli studenti e dai riverberi dell’estetica della Nouvelle Vague, Adriana, ora simile a una delle tante maschere «intello» di Anna Karina o Jeanne Moreau, si spoglia degli orpelli di scena mentre la sua storia si riduce a una sorta di diario intimo in cui l’attrice si confronta un’ultima volta godardianamente con la sua immagine (Michonnet la filma), si concede di occupare sola il centro della scena (Maurizio ridotto a pura voce come Alfredo in Traviata), morendo come donna adorante per vivere in eterno come diva adorata.