Dopo il vivace e stimolante Titos Brille (Gli occhiali di Tito), il suo romanzo del 2011 incentrato su un viaggio alla ricerca delle radici familiari attraverso la natia Croazia e i briosi, lucidi articoli che ha raccolto nel 2017 in Das Meer und ich waren im besten Alter (Il mare e io eravamo nel fiore degli anni), la scrittrice, attrice nonché regista di teatro Adriana Altaras mette ora al centro di questa sua ultima narrazione tanto la quotidianità dell’attività operistica quanto i temi della memoria e dell’identità.

NATA A ZAGABRIA nel 1960 da genitori di origine ebraica che si sono poi trasferiti in Germania, l’autrice descrive i tanti aspetti di un ambiente che conosce assai bene miscelandoli con il senso di smarrimento e il bisogno di ricordare la Shoah: il risultato è costituito da un romanzo avvincente che si caratterizza, sotto il profilo stilistico, per la scorrevolezza della prosa, il ritmo rapido e costante, la varietà dei registri stilistici – nell’ambito dei quali sembra prevalere il tono tragicomico -, il plurilinguismo, la concisione e l’incisività della scrittura.

In Die jüdische Souffleuse (La suggeritrice ebraica) (Kiepenheuer & Witsch, 2018) Adriana, la regista, e Susanne (Sissele), la suggeritrice, stanno appunto allestendo una messa in scena del Ratto del serraglio insieme ai loro collaboratori. Nel corso delle prove, tuttavia, i loro dissidi sono continui. Si tratta però di contrasti che vertono sì sulle possibili interpretazioni dell’opera ma non soltanto: perché Sissele si prefigge di raggiungere uno scopo che non ha nulla a che vedere con le opere di Mozart ma molto con Adriana avendo tentato invano, per decenni, di rintracciare i propri congiunti che, dopo la Seconda guerra mondiale, erano finiti ai quattro angoli della terra. Ma ora, avendo letto il libro nel quale Adriana ha descritto la ricerca dei suoi genitori e fratelli, ha maturato questa ferma convinzione: che, a ricostruirne le vicende, possa aiutarla solo quest’ultima.

L’AUTRICE DESCRIVE le tante sfaccettature legate alla quotidianità di una compagnia operistica – dalle meschinità alle invidie, dalle gelosie agli slanci di dedizione e generosità, dagli insuccessi agli applausi – formata da professionisti provenienti da mezzo mondo. Interessanti risultano poi alcune osservazioni relative alle tante assurdità che connotano un lavoro del genere: «Stiamo costruendo un sogno a beneficio dello spettatore, abbiamo dato vita a un universo fittizio, ci comportiamo tutti come se la realtà fosse una finzione e noi, il teatro, l’opera, il palcoscenico il mondo vero e proprio, quello più reale. Siamo pazzi e ci abbiamo fatto l’abitudine. L’chaim. Alla salute!».

Il romanzo, pervaso dal senso dell’umorismo che contraddistingue la cultura ebraica, racconta inoltre di un viaggio avventuroso intrapreso dalle due donne sulle tracce dei familiari di Sissele. I cui genitori, nel 1953, sopravvissuti alla Shoah, erano tornati in Germania dallo Stato di Israele per cercare, in un Displaced Persons Camp, la sorella della madre: una donna, quest’ultima, che all’epoca era giovanissima. Susanne, dal canto suo, aveva appena un anno. Il padre invece, già oltre la trentina, ad Auschwitz era stato destinato al Sonderkommando: aveva cioè lavorato nei forni crematori e vissuto pertanto un’esperienza particolarmente devastante. Scrive al riguardo l’autrice: «I membri del Sonderkommando erano dei segnati da Dio, li si evitava come se avessero la lebbra, venivano considerati la longa manus della morte. Creature degli inferi». La madre era morta due anni dopo. Il padre, in un primo tempo, era scomparso e la figlia era dunque rimasta presso una zia. Poi, un bel giorno, il genitore era tornato a farsi vivo e aveva preso Sissele con sé per affidarla a una famiglia bavarese. Dopo pochi mesi, però, egli aveva portato la bambina in un convento di suore, dove sarebbe rimasta solo qualche tempo. Un rapporto, il loro, che conoscerà lunghi periodi di separazione anche in seguito, una volta cioè che i due saranno emigrati in Canada.

La regista e la suggeritrice si mettono quindi in viaggio: percorreranno un itinerario che le condurrà prima a consultare l’archivio di Bad Arolsen, quindi a Theresienstadt e infine a Mauthausen – dove riusciranno a leggere alcune pagine scritte dal padre di Susanne che contribuiranno a fare luce sul periodo nel quale egli sopravvisse al Lager e alla successiva «marcia della morte». Informazioni che costituiranno un primo ma decisivo passo verso un insperato ricongiungimento tra Sissele, un suo cugino e alcune parenti delle quali non aveva saputo più nulla. E si tratterà di un epilogo che – sotto il profilo affettivo – coinvolgerà profondamente anche Adriana.

«IL DESTINO ha un gran senso dell’umorismo», scrive la narratrice quasi alla fine del romanzo. È forse questa la migliore sintesi di un’opera assai riuscita che unisce passato e presente mostrando come le vicende individuali – sebbene segnate dagli orrori nel XX secolo – possano riservare sviluppi inattesi e rassicuranti. E come, fortunatamente, la loro memoria continui a far sentire la propria voce anche a coloro che, dopo pochi decenni, rischiano di non ascoltarla più.