Per quanto se ne ribadisca, da più parti, l’indipendenza di pensiero e di giudizio, il nome di Adorno è inseparabile dall’Institut für Sozialforschung, fin dai suoi esordi weimariani, poi nell’exclave in America con lo sguardo sulla Germania degli anni più bui, fino al rientro nella Repubblica federale. L’«industria» beckettiana, al contrario, è affare francese o irlandese, anche molto americano, ma solo scarsamente tedesco. Eppure, fin da subito dopo la guerra, Adorno si ritrovò in una sorta di intimità con Beckett. A detta di Rolf Tiedemann, allievo ed editore degli scritti adorniani, le prime letture risalgono agli anni Cinquanta, mentre i due si incontrarono solo il 28 novembre del 1958, a Parigi. Qualche mese prima, Adorno aveva visto in scena Finale di partita, riportandone un’impressione profonda. Con l’occasione di alcune conferenze alla Sorbonne e la mediazione dell’influente Peter Suhrkamp, che pubblicava Beckett in traduzione tedesca, Adorno organizzò l’incontro all’Hotel Lutetia, da dove i due uscirono per camminare in città.

L’avversione per Kafka
La lunga passeggiata parigina, stando al diario di Adorno, toccò questioni cruciali, per esempio la riluttanza che Beckett provava di fronte a Kafka, con il quale invece Adorno, studioso kafkiano da più di dieci anni, sentiva una netta convergenza. Una copia del suo primo volume delle Note per la letteratura, appena pubblicato, venne donata da Adorno a Beckett come suggello dell’incontro, che avrebbe lasciato in entrambi una traccia significativa.

Adorno lo rievoca in esergo al saggio del 1961 su Finale di partita, senza dubbio il suo maggiore aperçu saggistico sull’arte di Beckett, che chiude il secondo volume delle Note per la letteratura. Altri contributi sarebbero poi venuti, dal carattere sempre più sparso e frammentario, come le osservazioni nella terza parte della Dialettica negativa, i passi rastremati nella postuma Teoria estetica, l’abbozzo di un saggio sul romanzo L’Innominabile, interrotto dalla morte dell’autore, che avrebbe dovuto costituire il tassello culminante del suo saggismo su Beckett, in un progettato quarto volume delle Note per la letteratura.

Gli scritti di Adorno su Beckett sono ora raccolti in un volume ben curato, con perfetta postfazione, da Gabriele Frasca, Il nulla positivo (in uscita a fine settimana, L’Orma, pp. 238, € 18,70) che, accostando in rassegna le varie occasioni in cui Adorno prese la parola, ricostruisce la linea ermeneutica del suo confronto con il teatro e la narrativa di Beckett. Punto di partenza e precedente storico per l’idea compositiva che regge il volume è il terzo numero dei «Frankfurter Adorno Blätter», pubblicato nel 1994 da Rolf Tiedemann.

Il fascicolo offriva una sequenza di significativi marginalia adorniani su Beckett, note di diario a registrare gli incontri con l’autore irlandese, glosse e minute in preparazione al saggio su Finale di partita, rapidi appunti presi a matita sulla traduzione tedesca dell’Innominabile, l’abbozzo saggistico sullo stesso romanzo e infine la trascrizione di una trasmissione televisiva, in onda il 2 febbraio del 1968 per l’emittente Westdeutscher Rundfunk, cui Adorno prese parte.

Eppure Il nulla positivo si muove in autonomia rispetto all’ «archetipo» tedesco. Rinunciando alle sezioni più marcatamente ecdotiche della rivista tedesca, ne riordina i contenuti e intercala ai frammenti di scrittura e alle stesure provvisorie, scritti adorniani interi o più compiuti, non accolti nel periodico tedesco perché già editi, come l’ineludibile saggio su Finale di partita.
È diverso, infatti, l’intento del volume italiano: se la rivista offriva materiali per la filologia d’autore, la nuova composizione di scritti adorniani nel Nulla positivo, in parte inediti al pubblico italiano o da tempo scomparsi dal mercato, pur non rinunciando alla fedele restituzione dei testi nella loro integrità, ambisce a seguire tutto l’arco della riflessione di Adorno, insieme estetologica e teoretica, che si muove con disinvoltura tra teoria letteraria dell’arte e teoresi filosofica, nell’intendere l’estetica come vasto campo di forze convergenti.

Verso una monografia
Il pensiero di Adorno su Beckett, come angolo visuale ravvicinato da cui inquadrare l’intera riflessione del filosofo francofortese, emerge da questo volume senza la rotondità e la politura del compiuto e anzi spesso, data la frammentarietà dei testi, muovendosi sul terreno scabro, ma proprio per questo più denso, dell’incompleto e dell’ancora da farsi. Anche nei suoi approdi estremi, dove la scrittura si sfrangia al procedere di un pensiero che quasi si costruisce davanti agli occhi di chi legge, anche là dove i testi rimangono torsi, la raccolta di scritti su Beckett non smette mai di rispecchiare al meglio il coagulo interdisciplinare del pensiero di Adorno, la sua capacità di dialogare con l’intero orizzonte del moderno. Alla compiutezza del noto Tentativo di capire il Finale di partita – con la distanza da certo teatro esistenzialista «a tesi», il procedimento di costruzione dell’insensato, l’ipotesi etimologica sui nomi propri che vide subito Beckett contrario, ma Adorno risoluto nell’affermare l’autonomia della semantica testuale dalla volontà dell’autore – segue così la verbalizzazione dei desideri interrotti, nelle annotazioni che preparano scritture a venire, appunti spezzati e, proprio per questo, forse più illuminanti in quanto schegge fulminee e sforbiciate del pensiero. Si profilano in questo modo, e negativo, i contorni di una possibile monografia su Beckett che Adorno ha forse vagheggiato senza compiere, e di cui i singoli scritti sono le disiecta membra, ancora più propulsivi proprio per il loro essere sparpagliati.
Su tutti i testi, la tessera più interessante, spazio inaugurale della raccolta, è senz’altro la integrale del dibattito televisivo su Beckett, nella Germania federale della grande coalizione e di quella contestazione studentesca che proprio dalla teoria critica di Horkheimer e Adorno aveva tratto la sua linfa. Dopo aver trasmesso il filmato di una rappresentazione della Comédie beckettiana e il mediometraggio, dal titolo autoriflessivo, Film con Buster Keaton unico attore, l’emittente televisiva propone un dibattito di una profondità oggi impensabile: vi partecipano, insieme ad Adorno, un critico letterario e un critico teatrale.

La distanza da Lukács
In una dialettica serrata e densa di affondi interpretativi, i tre ospiti discutono sulla commedia e sul film, e la voce di Adorno è nettissima nel metterne in luce i nuclei a suo giudizio più produttivi, la drastica opposizione all’estetica del realismo di Lukács, la morte come utopia e, a rovescio, l’incapacità di morire dei personaggi, il nulla impossibile da concepire in senso assoluto, e possibile, invece, in quanto negazione di qualcosa.

Da qui, il concetto di «nulla positivo», la necessità di prendere il testo alla lettera e di ritrovare, proprio dentro la lettera, il contenuto metafisico, la riduzione all’essenziale, lo spavento dell’essere percepiti dallo sguardo altrui, il testo che, come ultima stazione, conduce fuori dalla parola, per le vie dell’ineffabile, del mistico e del musicale. Da ultimo, la speranza, che Beckett lascia intravvedere a sprazzi, come rimedio al basso continuo dell’esistenza. «Bisogna continuare», chiosa Adorno citando le ultime parole dell’Innominabile, «e io continuerò».