La ricezione italiana dell’opera del maestro della Scuola di Francoforte, Theodor W. Adorno, ha avuto una vicenda molto singolare: l’Italia è stato il primo Paese a valorizzare e tradurre massicciamente i testi del pensatore tedesco, soprattutto negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, ma nel nuovo millennio lo ha quasi completamente dimenticato. Così oggi, mentre i numerosi e importanti corsi di lezioni di Adorno, pubblicati postumi in tedesco, vengono tradotti quasi tutti in inglese, in Italia non si vede quasi nulla (con qualche lodevole eccezione, come per esempio il corso di Introduzione alla dialettica, che esce proprio in questi giorni per le edizioni ETS di Pisa a cura di Giovanni Zanotti).

EPPURE ADORNO è un pensatore dal quale c’è ancora molto da imparare; è un filosofo che eccede largamente il contesto del marxismo critico novecentesco, nel quale pure si è formato, e che ha molto da dire anche nella contemporaneità. Una lettura sapiente e ben costruita di alcuni nodi essenziali della sua filosofia la propone oggi Gianpaolo Cherchi nel volume Logica della disgregazione e storia critica delle idee. Uno studio a partire da Adorno, uscito per i tipi del Mulino (pp. 240, euro 24) nella collana dell’Istituto italiano per gli studi storici. Filo conduttore della lettura che Cherchi propone è proprio quella «logica della disgregazione» che dà il titolo al libro e nella quale Adorno stesso ebbe a riconoscere una sorta di intuizione originaria del suo pensiero, da lui formulata quando era ancora studente.

Una «logica della disgregazione» è appunto per Adorno la sua dialettica, che proprio in questo rompe con quella hegeliana. Il pensiero è critico e dialettico, per Adorno, in quanto smonta, frattura i concetti tramandati dalla tradizione filosofica, fluidifica la loro rigidità, e ne mostra la inadeguatezza nei confronti di una realtà che si sottrae alla loro presa.
La dialettica investe ogni pretesa intellettuale di possedere un positivo, ogni illusione di afferrare un risultato acquisito, attraverso lo smontaggio critico che fa emergere le contraddizioni di ogni punto d’approdo provvisoriamente conseguito.

È VERO CHE QUESTO lo fa anche la dialettica di Hegel, che il filosofo di Stoccarda definiva appunto come «lo spirito di contraddizione organizzato», essendo in questo apprezzato e lodato proprio da Adorno. Solo che, mentre in Hegel il processo disegna un percorso ascendente, che sembra attingere infine un punto in cui si acquieta, in Adorno non accade niente di simile. Come dice bene Cherchi, quella di cui Adorno va in cerca (e non è detto che la ricerca sia sempre soddisfacente o riuscita) è «una dialettica mai conciliata, refrattaria a qualsiasi forma di sintesi positiva»; è «un pensiero che, cogliendo la fallibilità e l’apertura come suoi caratteri essenziali, viene invitato a fare esperienza di sé stesso, a varcare i limiti della propria autoreferenzialità in un costante, perpetuo e immanente auto-superamento e auto-oltrepassamento». Quello di Adorno insomma è un pensiero che non propone «soluzioni», che si sofferma presso la contraddizione, e che proprio per questo conserva come suo tratto essenziale l’apertura verso il nuovo e il diverso.

Fin qui, però, ci potremmo arrivare anche con altri strumenti concettuali; Adorno non è il solo pensatore del Novecento che si sia mosso in questa direzione. Il punto sul quale Adorno va decisamente oltre, invece, è là dove egli sottolinea che la contraddizione e l’apertura del pensiero non sono una questione che riguardi soltanto la filosofia, ma sono ciò che segna la stessa realtà storico-sociale, che è proprio lei ad essere contraddittoria e frantumata. Se la comprensione intellettuale non esaurisce e non abbraccia la realtà, è perché questa stessa è (diversamente da quello che vogliono far credere tutti i sostenitori della immodificabilità del mondo) instabile, solcata dalla contraddizione, radicalmente contingente.

L’IMPLICAZIONE decisiva del pensiero adorniano, che lo distingue da altre operazioni decostruttive molto più futili, è che esso, come scrive Cherchi proprio nelle dense pagine conclusive della sua indagine, «permette di considerare l’ordine dato, l’attuale configurazione dei rapporti sociali di produzione, le modalità di relazione dell’uomo con sé stesso e con la natura, la stessa essenza umana, in un’unica parola, l’intera forma di vita esistente, come tutt’altro che necessaria e tutt’altro che immutabile». Insomma, non è solo nel pensare, ma nella realtà stessa che secondo Adorno si mantiene aperta la possibilità del diverso. Forse una «possibilità impossibile», certo una possibilità quanto mai evanescente, che però sta incisa dentro la stessa insoddisfazione costitutiva del mondo reale.