Quando raggiunge l’altura, dopo aver violato l’impenetrabile muro di fuoco tracciato da Wotan per proteggere il profondo sonno della figlia Brünnhilde, Siegfried scorge, in mezzo agli ultimi vapori della nebbia, la sagoma di un cavallo addormentato: «Che riposa assopito, laggiù/ nell’ombrosa abetaia?/ Un destriero gli è,/ che sosta in profondo sonno!»: così, l’antiquata traduzione degli anni Trenta di Guido Manacorda. Da questo celebre passo del terzo Atto di Siegfried Adorno prende spunto per definire magistralmente il concetto di aura applicato al teatro di Wagner.

Il cavallo – simbolo più antico della spada di Siegfried e del Walhalla degli dèi – è forse, secondo Adorno, l’unica figura che affiori direttamente dal mondo preistorico nella mitologia wagneriana. Siegfried prende lentamente coscienza del nuovo mondo in cui è precipitato superando la prova del fuoco, ma prima che il suo Io profondo s’infiammi d’amore, il suono dell’orchestra racconta un tempo arcaico, proveniente da una eredità ancestrale evocata da accordi stagnanti, in pianissimo, sui quali resta sospeso come un lieve vapore il tema delle Valchirie. Il cavallo conosce gli uomini più a fondo di quanto gli eroi del dramma conoscano loro stessi.

Adorno scrive nel 1937, in uno degli appunti sparsi sulla musica moderna e raccolti nel 1963 con il titolo Quasi una fantasia. È qui che si trova la celebre frase riportata in epigrafe all’inizio del Versuch über Wagner: «Pferde sind die Überlebenden der Helden», i cavalli sono i sopravvissuti degli eroi. Non è tutto. Anche Brünnhilde, risvegliata alla vita e all’amore, volge dolcemente lo sguardo verso il cavallo: «Vedo là Grane,/ il mio gioioso cavallo:/ come vispo egli pasce,/ che con me ha dormito!». La traduzione di Manacorda nasconde una sfumatura importante: in realtà, infatti, non viene chiamato gioioso, bensì, con termine cristiano, selig, benedetto: Brünnhilde ha dormito con il cavallo come suo sposo, in una sorta di unione consacrata.

L’attacco a Boulez
Non è un mistero che Adorno e la moglie Gretel usassero chiamarsi, in privato, con nomignoli da cavalli: l’epigrafe e la dedica a Gretel del Versuch, nel 1952, allude quindi a qualcosa di molto personale nel rapporto di Adorno con Wagner, e riflette l’articolata allegoria sullo sfondo di questo libro, in cui figurano il rapporto con la filosofia tedesca, in primis Hegel e Nietzsche, la svolta marxista degli anni Trenta, il problematico e vitale confronto con il pensiero di Walter Benjamin.

Quando nel 1966 Mario Bortolotto tradusse in italiano il Versuch, in un libro Einaudi che accorpa un altro saggio di Adorno su Mahler, il pubblico italiano era ancora ignaro della quantità di temi che si affollano dietro il nome di Wagner. Non il curatore, però, che nella sua prefazione colloca giustamente la lettura di Wagner alla quale Adorno ci introduce sullo sfondo della critica a Nietzsche, intuendo i numerosi, invisibili fili che legano questa celebre e assai discussa interpretazione ai rapporti sociali borghesi e al confronto ostinato che Adorno istituiva con il marxismo eretico, antidogmatico dell’ultimo Benjamin. Lo sguardo critico di Bortolotto è tanto più sorprendente se si pensa che negli anni Sessanta non era stato ancora divulgato il laborioso canovaccio del Passagen-Werk, termine di paragone essenziale per comprendere molte sfumature del disaccordo tra Benjamin e Adorno sul rapporto tra struttura e sovrastruttura, ma anche per misurare il profondo fascino intellettuale esercitato dall’autore dei Passaggi sul pensiero del più giovane amico.

In quegli anni, Bortolotto stava lavorando a Fase seconda, uscito nel 1969, la più alta sintesi di quella breve ma incandescente esperienza di pensiero musicale conosciuta con l’etichetta di Neue Musik, e la sua immagine di Adorno, mentre poteva permettersi di prescindere dall’ortodossia delle prime traduzioni coordinate da Renato Solmi, era largamente influenzata dall’infuocato dibattito suscitato dal saggio sull’Invecchiamento della musica moderna, nato da un intervento radiofonico del 1954: in quelle pagine Adorno attaccava frontalmente la neo avanguardia di Darmstadt, a cominciare dal suo più intransigente teorico, Pierre Boulez, sostenendo come quella musica che si pretendeva nuova era in realtà invecchiata prematuramente. In Italia, il saggio di Adorno, incluso nella raccolta Dissonanzen, aveva destato un relativo scalpore, ma in area tedesca l’attacco a Darmstadt aveva provocato una lunga scia di polemiche, guidate dall’allievo e critico musicale Heinz-Klaus Metzger, che aveva minato l’immagine granitica del grande teorico del modernismo musicale.

Fra Londra e New York
Il saggio su Wagner, ora riproposto a cura e con la postfazione del 1966 di Bortolotto dall’editore Abscondita (pp. 152, € 20,00) è stato scritto, come la maggior parte dei musicalia di Adorno, prima della guerra, tra l’autunno del 1937 e l’inizio del 1938, appena prima d’imbarcarsi per gli Stati Uniti. Quattro dei dieci capitoli del libro apparvero con il titolo di Fragmente über Wagner nel primo doppio fascicolo del 1939 della «Zeitschrift für Sozialforschung», pubblicata in esilio da Max Horkheimer, accanto al saggio su Baudelaire di Benjamin, che aveva ammirato il lavoro di Adorno conosciuto nel corso del loro ultimo incontro a Sanremo nel gennaio del 1938. I Fragmente erano il più rilevante contributo critico su Wagner degli anni Trenta dopo gli scritti di Thomas Mann, Leiden und Größe Richard Wagners del 1933 e Richard Wagner und der «Ring des Nibelungen» del 1938, volutamente ignorati da Adorno (così come da Bortolotto), che rivolge la sua attenzione critica unicamente verso l’altro grande pamphlet antiwagneriano, quello di Nietzsche.

La demistificazione di Wagner, in altre parole, è per Adorno anche una polemica sul pensiero negativo di Nietzsche, e sulla sua radice nel nichilismo passivo di Schopenhauer. Dopo la guerra, e soprattutto dopo la morte di Schönberg nel 1951, Adorno riprende in mano il manoscritto, nato in seno al lavoro critico sull’Ottocento borghese sviluppato assieme a Horkheimer negli anni Trenta, e lo pubblica integralmente con il titolo di Versuch über Wagner, segnalandone dunque il carattere di ricerca, di tesi ancora da esplorare, e rivedendone alcune parti alla luce delle nuove ricerche biografiche, in particolare gli ultimi due volumi della monografia di Ernest Newmann.

Il punto essenziale sta nella l’acribia con cui Adorno, fedele fino all’ultimo al suo maestro Alban Berg, si sforza di fondare la critica sociale a Wagner e al wagnerismo seguendo il filo dell’analisi musicale, allo scopo di tenersi accuratamente alla larga dal rimestare nel fango del pettegolezzo biografico. La qualità ancora oggi illuminante, e godibilissima anche a chi sia sprovvisto di specifiche conoscenze musicali, delle pagine dedicate per esempio al colore orchestrale, al rapporto tra il ritmo e l’idea del tempo musicale, alla gestualità drammatica, distingue gli scritti su Wagner dall’insieme delle carte musicali di Adorno, compreso forse l’incompiuto lavoro su Beethoven. Certo, il filtro della sua analisi passa a sua volta per il cannocchiale prospettico della musica di Schönberg, tramonto e redenzione della musica di Wagner.

Nell’ultimo, straordinario capitolo del Versuch, intitolato «Chimera», Adorno ricorda come nel Quartetto in fa diesis minore di Schönberg, alla fine del terzo movimento, il soprano intoni i versi di Stefan George «Nimm mir die Liebe, gib mir dein Glück!» (prendimi l’amore, dammi la tua felicità!): nella musica di Schönberg, Adorno intende indicare la mistificazione ma anche la redenzione del teatro di Wagner, perché nel mondo attuale amore e felicità sono monete false, e l’amore è impotente a redimere l’uomo dal proprio destino. Ma una volta strappato quel metallo dall’ebbrezza fantasmagorica e decadente dell’orchestra di Wagner, e poi fuso nella nuova musica dei viennesi, Adorno vede un possibile soccorso all’angoscia dell’uomo abbandonato, e lascia quindi uno spiraglio alla speranza che la musica riesca ancora a incarnare la promessa di un mondo nuovo. Coerentemente, infatti, il saggio si chiude con un motto – Vivere Senza Paura – che, sia per Adorno, sia per Bortolotto, coincide con l’invito a rifuggire da ogni forma di ascetismo estetico e a emanciparsi da una confortevole acquiescenza al dogma del progresso.