«Lo vede questo anello? Non lo porto per civetteria. Basta svitarlo un po’ e viene fuori il timbro che nasconde: non è un gioiello, ma lo strumento di un falsario». Il suo vero mestiere, meglio la sua missione Adolfo Kaminsky non l’ha mai abbandonata. Ha iniziato a fabbricare documenti falsi nella Francia occupata dai nazisti per salvare gli ebrei destinati alla deportazione verso i campi di sterminio, ed ha continuato a farlo per decenni, per tutti coloro che rischiavano la vita per combattere il fascismo. Al punto che ora, a ottantanove anni, ha ancora la forza e l’entusiasmo di raccontare la sua storia ai giovani: solo la scorsa settimana a Parigi è stato ospite del collettivo La Horde per parlare di «resistenza antifascista e le lotte anticoloniali».

Nato nel 1925 in Argentina in una famiglia ebraica di origine russa che si trasferì nei primi anni Trenta in Normandia, Adolfo Kaminsky era ancora un adolescente quando sua madre fu uccisa nel 1940. Da quel momento, come tutti gli ebrei della regione del Calvados, anche i Kaminsky saranno dapprima schedati, quindi internati nel carcere di Caen e, infine, trasferiti al campo di Drancy, alle porte di Parigi, punto di partenza dei treni per Auschwitz. Nel gennaio del 1944 Adolfo e i suoi familiari saranno liberati grazie all’intervento del consolato argentino.

Da quel momento, aveva solo 17 anni, quel ragazzo timido appassionato di chimica si trasformerà nel più scrupoloso falsario su cui potrà contare la Resistenza francese. Grazie al suo lavoro saranno salvate migliaia e migliaia di vite. Poi, a guerra finita, ci saranno altre cause per cui battersi e altre esistenze da salvare. Alla sua vita è stato dedicato il documentario Faux et usages de faux del regista Jacques Falk. Nel 2009 sua figlia Sarah, attrice e autrice teatrale, ha pubblicato la sua biografia – Adolfo Kaminsky, une vie de faussaire -, uscita poi in Italia (Angelo Colla Editore, pp. 224, euro 18) e in Argentina.

Signor Kaminsky, quando è diventato un falsario?

Dopo che abbiamo lasciato il campo di Drancy nel 1944. Eravamo vivi, ma non lo saremmo rimasti a lungo se non avessimo avuto nuovi documenti per sfuggire alle retate dei nazisti. Così, per procurarmi carte d’identità false, sono entrato in contatto con la Resistenza. A quel punto mi sono accorto, per caso, che le mie conoscenze di chimica, all’epoca lavoravo in una tintoria e studiavo come mescolare gli inchiostri, potevano essere utili a qualcuno. Avevo rischiato di essere ucciso e sapevo che poter contare su documenti ben fatti poteva fare la differenza. Così mi sono impegnato in quel lavoro notte e giorno. Eravamo un piccolo gruppo che stava sempre insieme, cambiavamo spesso la sede del nostro laboratorio nel Quartiere Latino di Parigi. Agivamo in clandestinità. Perfino il responsabile della Resistenza non sapeva esattamente il nostro indirizzo. Lo incontravamo ogni settimana in un luogo convenuto, per il resto, nessun altro contatto. Difficile dire quante migliaia di documenti siamo riusciti a fabbricare in questo modo.

Dopo la liberazione, il controspionaggio francese riorganizzato da De Gaule cercò di arruolarla, ma lei aveva già trovato un’altra causa per cui battersi. Cosa era successo?

Sono cresciuto in una famiglia di simpatie marxiste, mio padre scriveva sul giornale del Bund, non sapevo fino in fondo nemmeno cosa significasse il termine «ebreo». L’ho scoperto durante l’internamento a Drancy, È lì, in mezzo a tutta quella gente che non avrebbe più fatto ritorno a casa, che ho scoperto gli ebrei d la mia identità ebraica. A guerra finita, ho aiutato i sopravvissuti dell’Olocausto che volevano raggiungere la Palestina. Tra il 1946 e il 1948 non ho fatto praticamente altro. Non si trattava solo di preparare documenti di identità, ma anche di organizzare il viaggio, trovare le navi e via dicendo. Quando è nato lo Stato di Israele, ero pronto a partire anch’io. A fermarmi all’ultimo momento è stato il fatto che il nuovo Stato scegliesse di fondarsi sulla religione: ma come, mi dicevo, non deve nascere un paese aperto, libero? Questa constatazione fu molto dolorosa e, alla fine, quasi mio malgrado, decisi di restare a Parigi e mi cercai un lavoro come fotografo.

La Parigi degli anni Cinquanta era scossa dall’eco delle rivolte anticoloniali che crescevano in Indocina e, soprattutto, in Algeria. Quando ha capito che avrebbe ripreso la sua attività di falsario?

Nel 1957, quando anche la stampa cominciò a parlare delle torture che i soldati e i poliziotti francesi infliggevano ai civili algerini. Notizie in tal senso erano già arrivate, ma ora era tutto documentato. Quelle torture mi facevano pensare ai nazisti e così ho capito che dovevo ricominciare. Avevo conservato tutto il materiale tecnico che serviva e potevo contare sull’aiuto di tanta gente che non si sarebbe certo rifiutata di darmi una mano dopo che era stata salvata anche grazie ai miei documenti falsi. Stavolta lavoravo da solo, in un laboratorio che avevo ricavato da una stanza di casa e in contatto con le reti di solidarietà francesi con il Fronte di liberazione nazionale di Algeri. Non era facile. La polizia era sempre all’erta: per questo scelsi di trasferirmi a Bruxelles.

Siamo nella prima metà degli anni Sessanta, il colonialismo francese è stato sconfitto, nel paese è cresciuta una nuova cultura che arriverà a maturazione nella rivolta del Maggio, non era venuto il momento di tornare a casa?

Non per me. Sostenendo l’Fln ero entrato in contatto con gli esponenti di molti altri movimenti di liberazione dell’Africa e dell’America Latina che, dopo la vittoria, fecero di Algeri la loro capitale. Da lì mi contattarono perché fornissi anche a loro ogni sorta di documento. Dal 1967 ho lavorato per ribelli e combattenti di più di quindici paesi diversi, dall’Angola al Cile, passando per i giovani americani che si volevano dare alla macchia per non andare a combattere in Vietnam. E senza dimenticare gli antifascisti di Grecia, Spagna e Portogallo che ancora vivevano sotto la dittatura. Devo ammettere che il Sessantotto di Parigi non mi ha coinvolto molto; ho fatto un passaporto falso per permettere a Daniel Cohn-Bendit di entrare illegalmente in Francia, ma il mio cuore era altrove, al di là del mare, dove i popoli lottavano ancora contro il fascismo.

Ad un certo punto ha deciso di smettere. Perché?

Ho smesso quando ho avuto la sgradevole sensazione di non sapere più per chi stavo lavorando. È accaduto all’inizio degli anni Settanta. All’epoca stavo lavorando a dei passaporti per dei militanti neri del Sudafrica che dovevano rientrare nel paese ma che erano su una lista di oppositori ricercati dalle autorità dell’apartheid. Nel giro di una settimana, i rappresentanti di tre diverse organizzazioni si presentarono per chiedermi documenti per le stesse persone, tutte dirette a Pretoria. Inoltre, alcuni di loro mi proposero di pagarmi quando era noto a tutti che consideravo quel lavoro come parte di un battaglia per la libertà. Sentivo che c’era qualcosa che non andava. O quei gruppi stavano conducendo una qualche guerra tra loro a cui non avevo alcuna voglia di partecipare, o dietro a tutto c’era la polizia. Volevano incastrarmi. A quel punto decisi di mollare. Tre giorni dopo ero su un aereo diretto ad Algeri, dove sono rimasto per più di dieci anni.

Ma oggi che le frontiere sono tornate ad essere delle gabbie, non ha voglia di ricominciare? Non vorrebbe aiutare i sans papiers?

Me l’hanno chiesto in molti, ma no, è giusto che mi sia fermato allora e poi ormai sono troppo vecchio. Ma c’è anche dell’altro. Il fatto è che non si può costruire una vita sui documenti falsi. Un tempo quelli che fabbricavo io servivano alle persone per scappare, per evitare di essere deportati ad Auschwitz o per entrare clandestinamente in un paese. Oggi, a coloro che chiamano sans papiers servono delle «carte» per poter vivere normalmente, per avere una casa o mandare i figli a scuola, per esistere davvero.