Aveva la purezza di un bambino e un talento cosmico. Così diceva Fidel Castro parlando di Gabriel Garcia Marquez, Nobel per la letteratura nell’82, morto a Città del Messico all’età di 87 anni. Lo scrittore colombiano, da tempo malato, è stato stroncato da una polmonite che lo ha costretto al ricovero per alcuni giorni e ieri, 17 aprile, si è spento nella sua casa nella capitale del Messico, sua seconda patria, dove ha trascorso 60 anni. Accanto a lui c’erano la moglie Mercedes Barcha e i suoi figli Rodrigo e Gonzalo.

Il presidente colombiano Juan Manuel Santos ha scritto un messaggio per dare l’ultimo saluto a Gabo: «Mille anni di solitudine e tristezza per la morte del più importante colombiano di tutti i tempi», nato il 6 marzo 1927 ad Aracataca, nella contea di Magdalena.

Marquez, che a vent’anni avrebbe portato con sé in un’isola deserta La Metamorfosi di Kafka e Le mille e una notte, abbracciava nel suo “realismo magico” un’idea della letteratura e del mondo: per quanto abbia sempre negato di essere comunista – nonostante un legame strettissimo con Fidel Castro – confessò al suo amico Plinio Apuleyo Mendoz il suo desiderio che il mondo fosse «socialista, e credo – disse – che prima o poi lo sarà». E nel discorso che pronunciò a Stoccolma quando gli fu consegnato il Nobel, disse che «Noi inventori di favole, che crediamo a tutto, ci sentiamo in diritto di credere che non è ancora troppo tardi per intraprendere la creazione di una nuova e devastante utopia della vita, dove nessuno possa decidere per gli altri addirittura il modo in cui morire, dove davvero sia certo l’amore e sia possibile la felicità, e dove le stirpi condannate a cento anni di solitudine abbiano finalmente e per sempre una seconda opportunità sulla terra».

E vent’anni prima, parlando della rivoluzione cubana, aveva detto di continuare a credere che «il socialismo sia una possibilità reale».

Giornalista, prima di diventare scrittore, in coincidenza con la rivoluzione cubana comincia a collaborare come corrispondente da Bogotà di Prensa Latina, che tuttora è l’agenzia ufficiale dell’Avana. Nel ’49 aveva cominciato a scrivere su El Heraldo, nella città di Barranquilla.

Nel 1955 pubblica il suo primo romanzo, Foglie morte, fino a quel momento è soltanto autore di qualche racconto e, come giornalista, sta partendo per l’Europa. E’ solo al suo ritorno, dal 1961, che cominciano a riuscire suoi libri: prima Nessuno scrive al colonnello, poi I funerali della Mama Grande, quindi La mala ora e nel 1967 Cent’anni di solitudine, che gli darà fama internazionale.

Prima che gli venga assegnato il Nobel per la letteratura, nel 1982, usciranno ancora L’incredibile triste storia della candida Erendira e di sua nonna snaturata, Occhi di cane azzurro e la sua più dura satira delle dittature latinoamericane, L’autunno del patriarca. Nel 1981 esce Cronaca di una morte annunciata. Dopo il Nobel tre anni di attesa prima che venga dato alle stampe L’amore al tempo del colera e nel ’99 esce Il generale nel suo labirinto, ispirato agli ultimi giorni di vita di Simon Bolivar. Tra i titoli più recenti, Dell’amore e altri demoni (1994) e Storia di un sequestro (1996), più alcune raccolte di racconti. Nel 2002 è uscita la sua autobiografia, Vivere per raccontarla.

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(sul manifesto di domani, 19 aprile, il ricordo di Gabo negli articoli di Antonio Melis e Maria Grazia Profeti)

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