A tre anni esatti dallo sbarco della Troika (Fondo Monetario Internazionale, Banca Centrale Europea e Commissione Ue), ieri in Portogallo è terminato ufficialmente il «piano di salvataggio». Tutto sembra essere differente (la propaganda dice: «Missione compiuta»), ma tutto è anche molto simile a prima.
Ora, contrariamente ad allora, a regnare è una sorta di calma rassegnata. I primi 24 mesi di cura sono stati duri e le mobilitazioni sono state molto intense, ma ora no: dopo che per due anni ci si è attivati tenacemente e fieramente per la difesa dei propri diritti, da qualche mese a questa parte si percepisce una palpabile sensazione di stanchezza. Purtroppo, va detto, occorre rendere merito all’intelligenza tattica del governo di centrodestra di Pedro Passos Coelho, che ha promosso all’inizio del suo mandato le misure più impopolari per riservarsi un momento di tranquillità per affrontare le elezioni.

I dati che emergono mostrano, però, uno scenario post-bellico: disoccupazione sopra il 15%, rapporto debito/pil al 130% e un tasso di rischio povertà che coinvolge un quinto della popolazione. Poi c’è chi esprime qualche dubbio su chi sia stato effettivamente salvato e chi fosse da salvare: Philippe Legrain, ex consigliere economico del presidente della Commissione José Manuel Barroso, rivela senza mezzi termini in un’intervista al quotidiano Público che «la troika dei creditori della zona Euro ha giocato un ruolo quasi coloniale, imperiale, e senza qualsivoglia controllo democratico, non ha agito nell’interesse europeo ma, di fatto, nell’interesse dei creditori del Portogallo», e il motivo principale per cui si è deciso di evitare la ristrutturazione del debito è stato che «il settore bancario ha dominato sui governi di tutti i paesi e su tutte le istituzioni della zona euro in particolare quelle francesi e quelle tedesche che volevano limitare le proprie perdite».

Anche il Pil, la cui crescita, contrariamente a tutte le aspettative, è stata nel primo trimestre del 2014 negativa, sembra volersi ribellare contro un clima di stravagante euforia. All’orizzonte si intravede il Fiscal compact da rispettare e ancora tanto da fare per ridurre i livelli di spesa a livelli precedenti al 2009 quando, pur in presenza di uno stato sociale più forte, era più bassa di adesso.

Contrariamente al 2011 oggi la sinistra è molto più forte: secondo i sondaggi, complessivamente, potrebbe raggiungere quasi il 60% dei consensi: il Partido Comunista Português (Pcp) intorno al 10%, il Bloco de Esquerda (Be) al 7% e il Partido Socialista (Ps) al 38%. Il problema però è che Pcp, Be e Ps hanno progetti difficilmente sintetizzabili tra loro e già nel marzo del 2011 hanno dimostrato di avere ben poca voglia di cercare un terreno di mediazione. In fondo, ci si potrebbe anche chiedere: perché unirsi visto che comunque le decisioni sono già state tutte prese altrove?

La risposta, sebbene appaia ovvia, tanto ovvia non lo è. I piani dell’analisi della strategia politica dovrebbero essere due, quello delle restrizioni di bilancio imposte dai trattati europei, e quello della politica nazionale. Certamente i due piani sono interconnessi, con il primo a influenzare in modo determinante il secondo. Ma sarebbe riduttivo affermare che non esistono margini di azione. Due i punti di un possibile accordo: sperequazione della ricchezza e corruzione. Riguardo alla disuguaglianza, misurata con l’indice di Gini, il Portogallo occupa oggi il quarto posto in Europa. Un dato, questo, ritornato a crescere appena un anno dopo la vittoria del centro destra alle elezioni del 2011. Sul piano della corruzione i dati sono particolarmente preoccupanti, uno studio sviluppato dalla Gallup rileva come, nella percezione dei cittadini, il Portogallo sia il quarto paese più corrotto al mondo. Certo si tratta di percezione, ma su questo punto anche la Commissione Europea ha lanciato i suoi, inascoltati, moniti.

Così, da questo estremo lembo d’Europa arrivano a tutto il continente domande molto complesse. La prima riguarda la sovranità: qual è il potere di decisione rimasto ai governi nazionali? E se questo margine è molto ridotto, non avrebbe più senso spingere ulteriormente il processo di democratizzazione europeo? Da questo punto di vista Ps e Be (la lista che sostiene Alexis Tsipras) sembrerebbero d’accordo, pur con qualche distinguo: entrambi difendono ad esempio l’idea che il parlamento europeo debba essere messo al centro di ogni decisione. C’è poi la questione del dumping fiscale e, quindi, di una armonizzazione all’interno dei paesi dell’unione europea/monetaria delle aliquote fiscali (il grande tema dirimente tra forze conservatrici e progressiste di tutti i paesi Ue). Il Pcp invece è restio ad allargare ulteriormente le competenze europee, anzi, preferirebbe che il governo di Lisbona tornasse a recuperare la sovranità di un tempo, da qui anche le timidezza, per non dire il disinteresse pressoché totale, con cui appoggia il candidato unico delle sinistre Tsipras.

Il secondo punto è più spinoso del primo. Oggi tra le forze di sinistra sembrerebbe prevalere un atteggiamento molto poco incline alla mediazione, e certo se ne capiscono le ragioni: da una parte il Pcp e il Be, guidati alle elezioni da a fare da portavoce degli strati più colpiti dalla crisi, e dall’altra un Ps richiamato costantemente al suo ruolo di partito «responsabile» nei confronti di accordi presi a livello comunitario. Eppure, per quanto le ragioni degli uni e degli altri hanno una loro spiegazione razionale, occorre comunque trovare una strada di uscita, che parta certo dagli ideali, ma che non trasformi gli ideali in scogli insormontabili.

Occorre distinguere cioè tra il desiderabile e il possibile ed evitare che succeda quanto successo nel marzo del 2011 quando, mancando un accordo parlamentare, il governo di centrosinistra guidato da José Socrates fu costretto, per colpa di tutti gli attori in gioco, a dimettersi e a chiedere l’intervento della Troika.