Tutti o quasi abbiamo ancora negli occhi le devastazioni della tempesta Vaia. Schiere di abeti abbattuti, deposti sul fianco dei declivi come se una mano di titano le avesse raccolte e sollevate, sradicandole, e quindi abbandonate. Laddove c’era un bosco poi c’è stata una catasta di legni, un’enorme oscenità che comunque la natura, nel suo vasto dizionario di possibilità avrebbe comunque saputo sfruttare a proprio vantaggio. Soprattutto in un mondo dove non tutto debba dividersi tra quel che è utile all’umanità e quel che non lo può essere affatto.

QUI, I PADRI E I NONNI DEI NOSTRI GIORNI, dicono ai figli, ai nipoti, ai ragazzi, C’era una volta un bosco. Dove ora vedi i prati o questi nuovi alberelli, o i mucchi di radici che attendono di essere condotte altrove, qui, vedi, da tanto tempo, cresceva una foresta. Io e tua nonna, io e tua madre, io e tuo zio, ci siamo dati il primo bacio sotto le fronde di un grande faggio laggiù. Qua fuori c’era una selva, alla fontana di casa nostra la mattina all’alba ogni tanto venivano i cervi e i caprioli ad abbeverarsi. Quante storie si potrebbero raccontare o inventare.

SONO PASSATE ALCUNE STAGIONI ma il maltempo continua ovviamente a manifestarsi nelle forme e nelle occasioni più disparate. Ed è proprio al termine di una giornata di afa, estenuante, a cavallo tra giugno e luglio, che nella provincia torinese, sopra i cieli della periferia industriale del capoluogo, e sopra i campi spesso coltivati a grano e granturco, tra Venaria, Rivoli, Collegno, Ciriè, Rivalta e Avigliana, che si sono sollevati venti robusti, che il cielo scuro ha iniziato a fendersi di lampi, che le porte e le finestre hanno iniziato a sbattere, le case si sono animate e le persone sono corse ai ripari, improvvisamente innervosite. Lungo le strade, chi guidava le automobili ha pregato di riuscire ad arrivare a casa prima dell’arrivo della pioggia, o peggio, della grandine. Qualcuno ci è riuscito, tirando un gran sospiro di sollievo, altri no. Ai primi goccioloni sul parabrezza e ai primi sospetti di chicchi si cerca riparo nelle stazioni di rifornimento, sotto i cavalcavia, ovunque sia possibile per evitare di rovinare la carrozzeria. Il vento nel frattempo ha smesso di essere una minaccia, è diventato una promessa, una promessa di devastazione, furia, alberi stracciati, chiome divelte, balconi investiti, tetti a rischio. Piove sempre più fitto e tu che guidi sei lì, come un topolino in un angolo, circondato da gatti dai lunghi artigli. La notte arriva e ti inghiotte.

LA MATTINA È QUASI COME SE NON FOSSE successo nulla. Sì, forse trovi qualche foglia a terra, rami, l’orto un poco in disordine ma alla fine non è male. Il cielo è limpido, l’aria leggermente frizzante, le rondini iniziano a tessere il consueto ordito di strilli. Quasi un paradiso. Altrove ti mandano fotografie di tappeti bianchi, come se avesse nevicato. Ma non è neve. E poi la notizia: a poche decine di chilometri di distanza, forse venti, ma nemmeno, sotto quei lampi che vedevi scatenarsi mentre fuggivi a casa, verso nord, lassù, quel che era un viale di vecchie querce secolari, alcune addirittura bicentenari, talora sostenute da tiranti o da bastoni di legno, un viale che ricordava in qualche modo che un tempo gli alberi servivano per segnare le strade e per proteggere le carrozze che transitavano. I cavalieri, i viandanti, i signori dai lunghi abiti ricamati. Tutte cadute. Erano sì alberi stanchi, e forse anche alberi brutti, cavati, sbilenchi, disarmoniosi, erosi. Le avevano tutte, povere creature! Eppure resistevano da tanto tempo, forse anche da prima della nascita dell’Italia unitaria, pensa te…

QUI I VENTI HANNO SPIRATO A OLTRE CENTO chilometri orari. Mentre i gufi, gli allocchi, le gazze e i corvi cercavano riparo chissà, e chissà come da quel mare dentro il quale loro non possono che vivere, tutti presi a sottrarsi dal vento che occupava qualsiasi spazio… i cinghiali probabilmente fanno in fretta, si accucciano, si rintanano ai piedi dei muretti, o accanto al fluire di un canale, di un fiumiciattolo, gli uni accanto agli altri, con quei loro occhi neri che scrutano, colmi di sospetto, i musi a terra. Le volpi raggiungono le tane e si sotterrano ben volentieri. Gli scoiattoli si arrotolano con le code in bocca nei tronchi degli alberi che oscillano paurosamente, ma forse riescono a non cedere. D’altronde sono al centro di un bosco, gli alberi resistono alle tempeste stringendosi in famiglie. Le case anche sospirano, coi mattoni vecchi che non si fanno troppo pensiero di questi venti inattesi.

MA COSÌ NON E’ PER LORO, LE VECCHIE querce in fila indiana, l’uno a pochi passi da quello che lo precede e da quello che lo segue. Noi siamo la memoria di questo luogo, noi siamo gli anziani testimoni del tempo che tutti tocca e tutto trasforma, noi siamo ma non coltiviamo parole. Che bisogno ci sarebbe mai di dire quel che è scontato? Il vento cresce, monta, s’ingrossa. Lo senti come tira, e voi, cari fratelli, care sorelle, lo sentite che ci vuole portare lontano? Che facciamo? Resistiamo o cediamo? Le nostre radici che intenzioni hanno? I nostri vecchi rami che cosa pensano di fare? Vi farete trascinare in una danza di morte? Oppure anche questa volta resisteremo e domani saremo qui, pacifici, magari più spettinati del solito, a sorridere placidamente al sole di un nuovo giorno?

CHISSÀ SE GLI ALBERI LO SENTONO che stanno per cadere. Chissà se lo sentono che questa e non un’altra volta diventeranno altro, smetteranno di essere quel che sono stati nella vita che hanno vissuto. Chissà se gli umani avranno mai modo di capire cosa sentano questi signori che ci accompagnano per un pezzo in queste nostre pur sempre troppo brevi esistenze… Ed ora eccoli lì, caduti, con tutti i segreti all’aria, senza più paura del fuoco o di perdere dei pezzi che possano far male a qualcuno. Eccoli lì, soltanto dei metri cubi di legna che qualcuno probabilmente sposterà, o magari trasformerà in statue, in nanetti da giardino, o in rotelle per qualche museo di storia naturale. Sono rimasti in piedi ai capi, le prime querce vicino al ponte detto verde, e poi gli ultimi due, dalla parte opposta. Nel mezzo una ecatombe di rami stracciati come se fossero stati fatti di stoffa, alcuni tronchi sono ancora in piedi ma completamente affranti. Quasi non li si può guardare. E noi li salutiamo, e li ringraziamo per il mondo che ci hanno lasciato, nei nostri ricordi, nella nostra immaginazione. Esisterà mai questo benedetto paradiso degli alberi?