Trisha Brown, la signora della post modern dance americana, la coreografa che negli anni Sessanta si arrampicava camminando sui grattacieli di New York rimettendo in discussione il senso stesso del movimento e della danza, l’autrice di capolavori assoluti come Set and Reset del 1983 con scenografie di Robert Rauschenberg e musica di Laurie Anderson, se ne è andata. Aveva ottant’anni ed era malata dal tempo eppure la sua scomparsa, avvenuta a San Antonio in Texas, lascia un vuoto e un senso di sgomento.

Con Trisha Brown se ne va uno dei più grandi maestri della danza del Novecento. E sembra incredibile che ad allontanarla dal mondo sia stata una malattia come la demenza vascolare, Trisha, la cui lucidità nel pensiero e nella ricerca sul movimento ha influenzato miriadi di danzatori e coreografi. Un luminoso rigore accompagnato da sorprendenti colpi d’ala rendeva ipnotiche le sue creazioni. Come i suoi famosi equipment pieces nei quali i danzatori, «equipaggiati» con imbracature e corde, sperimentavano il rapporto tra corpo e legge di gravità. Uno dei titoli manifesto fu Man Walking Down the Side of a Building, del 1971, ricostruito non molti anni fa. ma sono moltissimi i titoli, anche da riscoprire. Come Planes, del 1968, visual design della stessa Brown e sound di Simone Forti, portato l’estate scorsa alla Biennale Danza insieme ad altri pezzi storici di Trisha.

Brown, malata,  non si era mossa da New York, ma quella serata a chiusura Biennale sembrò consegnare al pubblico con una particolare emozione la portata dell’eredità di un’artista che non poteva più incantarci con la sua voce delicata e i suoi racconti dentro le creazioni. «Parto sempre dallo sviluppo del vocabolario – ci disse Brown in un’intervista – lavorando con l’improvvisazione che i danzatori poi memorizzano». E ancora «mi piace lavorare sull’impulso e l’intuizione. Ricevere e risolvere sollecitazioni fisiche, fedeli all’idea che la danza è movimento pensante». Perché «il corpo risolve i problemi prima che la mente riconosca di averne».

Così questa signora della danza americana si divertiva a sfoderare nel movimento la sua splendida logica matematica, accadeva negli accumulation pieces, sperimentazioni costruite a partire da un’azione di base alla quale se ne aggiungono di successive secondo un processo che mette in moto via via tutte le parti del corpo, ma anche nei pezzi dalla costruzioni coreografiche più imponenti come M.O. sull’Offerta Musicale di Bach, del 1995 o come il suo bellissimo lavoro sull’Orfeo di Monteverdi per il Théâtre de la Monnaie di Bruxelles su cui ci disse: «Ho imparato cosa significhi ricercare quale possa essere il gesto che permette di cantare meglio. È un lavoro di integrazione tra voce e movimento che dà maggiore potenza e luce all’interpretazione. Significa trovare quelle modalità che portano il corpo a raccontare qualcosa».

Nel 2012 furono annunciate le sue ultime due coreografie dopo le quali Trisha si sarebbe ritirata. La sua Trisha Brown Dance Company è andata avanti a portare in giro per il mondo il suo repertorio. Speriamo lo faccia ancora a lungo.