Dopo Nagisa Oshima e Koji Wakamatsu qualche anno fa, Seijun Suzuki in febbraio, se ne andato ad 85 anni anche Toshio Matsumoto. Regista, documentarista, video artista e teorico dell’immagine, Matsumoto ha fatto parte di quella generazione di cineasti e artisti che hanno alimentato e animato il dibattito culturale e controculturale del dopoguerra nipponico, una generazione che sta pian piano ma inesorabilmente scomparendo.

Fra i cineasti  citati Matsumoto è sicuramente il meno conosciuto a livello internazionale, ma per l’ampiezza delle sue attività e l’influenza esercitata sulle generazioni successive anche a livello teorico con i suoi scritti, si può certo considerare una delle figure più importanti dell’arte visiva giapponese del secolo scorso. Nato a Nagoya nel 1932 a catturare subito l’attenzione del giovane Matsumoto è la sperimentazione e il documentario, cerca così agli inizi del suo impegno cinematografico di trovare una strada intermedia che unisca la libertà espressiva della prima con il deciso radicamento alla realtà del secondo.

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Silver Ring del 1955 è il suo primo lavoro, un documentario girato per la televisione che mescola elementi d’avanguardia con la musica concreta realizzata per l’occasione da Toru Tekemitsu, compositore che avrebbe intrecciato la nuova onda del cinema giapponese nei decenni successivi. La sua attività di ricerca prosegue nei ’60, e nel contesto storico e artistico del periodo Matsumoto realizza due lavori che segnano una nuova strada. «Fino a quando il film è confinato ad essere un mezzo o uno strumento per trasmettere la realtà in modo rappresentativo, può essere considerato giornalismo o propaganda ma non arte. Se ci si aspetta delle emozioni artistiche da un film, dovremmo presentare il valore indipendente del cinema in modo più distinto, come un’altra realtà».

Sono queste le idee che lo portano a realizzare Nishijin, un documentario su alcune tessitrici di seta di Kyoto, poema visivo che mette in evidenza il ritmo dei gesti «normali» di un lavoro che di lì a qualche decennio sarebbe scomparso. Il film vince il Leone d’argento nella sezione documentario al festival di Venezia e spronerà il regista a continuare ed estremizzare la propria estetica nel progetto successivo, Song of Stones del 1963, con cui ribalta la struttura e la forma del documentario per creare un’opera composta da fotografie di pietre. Ma è nel 1968 che arriva il suo film più famoso, Funeral Parade of Roses, prodotto e distribuito dall’ATG e che esce in un periodo in cui la cinematografia giapponese si mescola, sperimentando, con le altre arti. Un periodo di forti tensioni artistiche di cui questo lungometraggio è forse la punta di diamante. Vi si racconta una love story gay impossibile in una Tokyo proibita e travestita durante i movimenti studenteschi che esplosero nell’ultimo biennio dei sessanta.

Ma ancora una volta ciò che interessa realmente Matsumoto anche al di là di una semplice critica di facciata, è la possibilità di scuotere le fondamenta stesse dell’atto del percepire, attaccare la forma film esistente e «interferire con lo schema percettivo di un mondo dualistico dove fatti e finzione, uomini e donne, oggettivo e soggettivo, mentale e fisico, candore e sceneggiata, tragedia e commedia sono divisi». Un’operazione che in Funeral Parades of Roses gli riesce benissimo, in un’opera che è la summa non solo della filosofia visiva di Matsumoto ma che ha la capacità di farsi simbolo, delle sue contraddizioni e delle strade che portano fuori di esso. È lo stesso Matsumoto a descrivere il film: «ho smantellato la struttura narrativa sequenziale e cronologica e sistemato passato e presente, realtà e fantasia su un’asse temporale come fosse un quadro cubista, adottando una forma a collage con citazioni vecchie e nuove, dall’Occidente e dall’Oriente da letteratura, teatro, pittura e musica». Fra il biancore latteo delle prime scene, fino all’accecamento e la dissoluzione finale c’è tutto e la negazione di tutto, il comico, il drammatico, l’avanguardia, il sociale, il sesso e la facezia.

Dai settanta Matsumoto continua la sua produzione intersecando ancora avanguardia, sperimentazione e video arte, ma concentrandosi prevalentemente in cortometraggi, anche se realizza due lungometraggi come Pandemonio del 1971 e Dogura Magura nel 1988. Sempre spinto da quell’impeto a deflagrare la percezione visiva e cognitiva dello spettatore/lettore, Matsumoto è stato anche un importante teorico del cinema, famoso un suo dibattito con Oshima durante i 60, il cui impatto e le cui idee continueranno ad ispirare, speriamo, le prossime generazioni di artisti e spettatori.