Di Jake La Motta, il «Toro del Bronx», che si è spento a 91 anni in Florida, lo stato in cui risiedeva da quando aveva appeso i guanti da boxe nel 1957, la moglie Dense ha dichiarato: «Era un grande uomo, sensibile. Aveva occhi che danzavano fino alla fine. E non è mai andato giù, che dio abbia cura di lui».

Mai finito al tappeto è sicuramente l’epitaffio che avrebbe lui stesso preferito, un pugile che ha incarnato la caparbietà e la testardaggine assoluta e sempre proclamato, anche quando le sconfitte hanno cominciato ad accumularsi, che nessuno era mai riuscito a buttarlo giù.

LA MOTTA SARÀ RICORDATO come il combattente che nello sport forse più spietato di ogni altro ci ha messo la faccia e, come dicono in America, il chin – la mascella di ferro.

Giacobbe «Jake» La Motta, figlio di genitori arrivati da Messina si è arrampicato nei ranking a forza di sganassoni fino a diventare campione dei medi alla fine degli anni ’40 e inizio dei ’50 in un America innocente e brutale, fresca di dopoguerra in cui i dagos come lui, gli italoamericani, si stavano ancora districando dai bassifondi in cui erano relegati sulla East Coast: Brooklyn, Boston, Philadelphia, Providence … i ranghi bassi dov’erano stati tenuti come «negri del sud».

Anni in cui le seconde e terze generazioni della grande emigrazione europea – italiani, irlandesi, polacchi – spintonavano per emergere dall’emarginazione. Il ring era strumento e teatro anche di una spietata rappresentazione sociale e la boxe era controllata da Cosa nostra.

La Motta era un prototipo di quel tempo e di quella boxe. Nato nella Lower East Side e cresciuto nel Bronx dove il padre lo obbligava a battersi con gli altri ragazzi del quartiere per divertimento e per arrotondare con le mance del pubblico.

Poi un percorso prevedibile: piccola criminalità e riformatorio – la strada ben battuta verso il ring. Professionista a 19 anni, evita il fronte nella seconda guerra mondiale a causa di un timpano perforato e inizia la scalata nel pugilato.

Un ritratto recente
Un ritratto recente

IL SUO RECORD: 83-19-4 con 30 knockout in una carriera durata dal 1941 al 1954. Numeri di tutto rispetto benché non strepitosi. La Motta si guadagna il nomignolo di «raging bull» (toro scatenato) per la caparbietà taurina con cui carica gli avversari.

Tuttavia rimane in fondo più famoso per le sconfitte e per le batoste subite a testa rigorosamente alta, la sua tenacia ossessiva nel rifiutarsi di andar giù e dare la soddisfazione all’avversario.

La storia del pugilato gli assegna il ruolo di massimo comprimario del migliore campione tecnico: Sugar Ray Robinson.

Quella con il sublime campione di Harlem rimane una rivalità leggendaria. I due si incontreranno sei volte in un decennio che li vede legati a doppio filo in uno scontro fra tecnica e forza bruta, toro e torero.

ROBINSON AVRÀ la meglio in cinque dei sei combattimenti ma dalle mani del toro rimedierà anche l’unica cocente sconfitta che lo vede scaraventato fuori dalle corde dell’Olympia Stadium di Detroit nel 1943. Due anni dopo, a Chicago, il quinto confronto viene assegnato a Robinson ai punti, una decisione che lascia scontenti molti. «L’incontro più difficile con La Motta», ricorderà poi Robinson.

I due pugili operano in categorie diverse: Robinson è un welter naturale; La Motta sgomina una serie di rivali nei pesi medi e alla fine meriterebbe il match per il titolo. Lo avrà ma solo se accetta di perdere un incontro truccato dalla mafia.

Nel 1947 la sua sconfitta per KO tecnico contro Billy Fox nel quarto round fa scalpore per la truffa fin troppo evidente, ma non ci sono prove dimostrabili. Due anni dopo, La Motta ha la pattuita ricompensa: l’incontro col campione francese Marcel Cerdan per la cintura che solleverà alla fine del match. Un titolo che difenderà due volte prima che sulla strada ritrovi il rivale di sempre.

IL SESTO E ULTIMO incontro con Sugar Ray avviene a Chicago nel ‘51 e per il pestaggio senza pietà somministrato da quest’ultimo viene battezzato come il «massacro di san Valentino». Robinson infierisce su un La Motta quasi catatonico che si rifiuta per dieci round di andare al tappeto pur nella gragnuola di pugni del pugile più agile e leggero, tenuto apparentemente in piedi dal solo amor proprio e dall’ostinazione.

Ricorderà in seguito il campione sconfitto: «Nei 6 match che abbiamo combattuto lui non mi ha mai messo al tappeto mentre io l’ho buttato giù tre volte». Anche quando l’anno successivo il «Toro» ha conosciuto per la prima volta il tappeto grazie a un gancio di Danny Nardico alla mascella terrà a rialzarsi prima della fine della conta.

Dopo il ring per lui si aprono gli anni da gestore di locali e night in Florida. Ç’è un arresto per favoreggiamento di prostituzione minorile nel ‘57 e la testimonianza alla commissione antimafia del congresso nel 1960 dove ammette la sconfitta truccata nel ’49.

Ci sono anche piccoli ruoli in film e Tv (compreso quello da comparsa ne Lo Spaccone con Paul Newman  e Jackie Gleason).

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De Niro e Scorsese in Toro Scatenato

Ma la sua consacrazione a icona «culturale» è legata al Raging Bull di Martin Scorsese.

L’ADATTAMENTO dell’autobiografia è firmato da Paul Schrader e per De Niro vale l’oscar. Rimane per molti la massima opera di Scorsese e lancia le carriere di Joe pesci e Cathy Moriarty.

È cronaca magistrale di un temperamento violento e squilibrato, un «coatto» dentro e fuori dal ring che prefigurava un altro pugile che sarebbe uscito dal suo stesso quartiere molti anni dopo: Mike Tyson.

Lui, l’originale «Toro del Bronx», avrebbe dichiarato: «Quando ho visto il film all’inizio mi ha fatto arrabbiare. Non facevo una bella figura. Poi ho capito che era vero. Ero un bastardo poco di buono. Ora me ne rendo conto. Non sono più così ma allora lo ero».