Stava meditando da un po’ di tempo il ritiro, almeno dalle scene live: «Credo sia arrivato il momento, ho anche un nipote e vorrei passare più tempo con lui», raccontava in una recente intervista. Invece Tom Petty, uno delle firme più importanti del rock americano fra la fine dei ’70 e degli ’80, non ce l’ha fatta e si è spento a 66 anni al Santa Monica Hospital a Los Angeles dove era stato ricoverato in condizioni disperate per le conseguenze di un attacco cardiaco. Una morte che si è tinta di giallo: le indiscrezioni sul decesso arrivate nella serata di lunedì, le smentite in un primo momento dalla famiglia riunita al suo capezzale che nelle ore successive ha poi confermato la dipartitadell’artista.

Tom Petty è stato uno degli ultimi rappresentanti di una tradizione musicale che ha saputo con intelligenza e grazie a una brillante tecnica, unire il rock dei ’60 con reminiscenze southern e un pizzico pop così da garantirgli il sostegno delle grandi corporation radiofoniche americane.

Voce aspra dalle coloriture nasali fortemente riconoscibile, ma l’esordio da solista – dopo la trasferta dalla Florida dove era nato nel 1950 alla California nei primi ’70 – non è dei più fortunati. Poi – come succede spesso nel mondo del rock – l’idea brillante di formare una band, così nascono gli Heartbreakers: quattro musicisti di peso come Benmont Tench alle tastiere, Mike Campbell alla chitarra, Stan Lynch alla batteria e Ron Blair al basso, che lo accompagnano dal vivo. E non solo, il gruppo è fondamentale nelle session di registrazione dei brani che vanno a comporre il primo e omonimo album di Petty & co.

Sono già presenti le tracce di un sound che caratterizzerà nel tempo i suoi lavori migliori: southern rock (la sua vera passione) e uno spiccato senso per la melodia (American girl dalle cadenze che molto devono ai Byrds avrà subito un impatto nelle classifiche americane e inglesi, addirittura Roger McGuinn dei Byrds ne realizza una cover) unito a un approccio quasi da garage band che gli garantisce l’appoggio di un pubblico under 20. Ma il successo di massa arriverà solo nel 1979, preceduto da un disco non riuscitissimo (You’re Gonna Get It, 1978), in cui ripete la formula dell’album d’esordio.

Damn The Torpedos, trionfo da cinque stellette per la critica che lo proietta ai vertici della classifica di Billboard vendendo oltre 3 milioni di copie, è quasi un passaggio simbolico: dopo tre anni di sbornia disco in 4/4 il rock stava tornando prepotentemente di moda. DTT è un’opera simbolo del rock made in Usa a cavallo fra i ’70 e gli ’80, dentro ci sono tutte le grandi anime di Petty, la passione per i Byrds, gli Stones in pezzi epici come Here Comes My Girl o la ballata Louisiana Rain ma soprattutto le contaminazioni dylaniane.

Già, Bob Dylan il primo a testimoniare il suo dolore per la morte del collega: «Ho riflettuto molto sul mondo di Tom e penso che sia stato un grandissimo artista, pieno di luci. Un amico che non scorderò mai». Una collaborazione iniziata nel 1986 con un tour di sessanta date che portarono Petty e la band in giro per il mondo, proponendo i loro pezzi e accompagnando Mr. Tambourine. Per Petty una vera e propria investitura da parte di uno dei suoi maestri dichiarati, che avrà una coda due anni dopo quando Otis e Nelson Wilburys, nome fittizio dietro cui si nascondevano George Harrison e Jeff Lynne, riescono nell’impresa di convincere Dylan, Petty e Roy Orbison a entrare in studio.

Sotto la sigla Traveling Wilburys firmano un album dai toni brillanti malinconicamente retrò: Handle With Care, Tweeter And The Monkey Man, spiccano in una rosa di dieci pezzi di alta qualità. Un progetto bissato di lì a due anni da un secondo volume (o meglio terzo, come il bizzarro gruppo aveva deciso di battezzarlo…) – senza Orbison morto a breve distanza dall’uscita del primo disco.

Nel 1989 poco dopo l’esperienza con i Wilburys, il musicista sente il bisogno di allontanarsi dalla band e pubblica Full Moon Fever, uno dei suoi progetti migliori e fortunati commercialmente: da Free Fallin’ – piccolo gioiello acustico, all’ironico Yer So Bad che prendeva il giro i rampanti yuppie e perfino una cover degli amati Byrd: I Feel A Whole Lot Better. L’attività procede di pari passo con opere soliste e con la band e negli ultimi anni, si caratterizza per un’intensa presenza dal vivo dove è apprezzato dalle giovani generazioni. Tanto che la pop star inglese Sam Smith deve «ammettere» che il coro della sua hit Stay with me è ripreso pari pari da I Won’t Back Down, scritto a quattro mani da Petty e Jeff Lynne. A piangere Petty sono in molti, perfino l’insospettabile Stephen King («Tom se n’è andato, che brutto giorno per la musica..»), mentre i Coldplay a Portland con l’aiuto dell’ex chitarrista dei R.E.M. Peter Buck, lo omaggiano eseguendo dal vivo Free Fallin’.