La prima volta che se n’è saputo qualcosa in Italia, certo in ritardo, è stato nel 1974, quando l’etichetta Cramps, quella fondata da Gianni Sassi – una delle sue tante invenzioni per il movimento culturale alternativo e sovversivo di allora (e di oggi, come dubitarne?) – pubblicò In Sara, Mencken, Christ and Beethoven there were men and women. Si sentì dall’hi-fi una voce che parlava solo un po’ melodicamente e inanellava parole, soprattutto nomi di grandi artisti e pensatori della storia, e intorno brulicavano suoni sintetici assortiti. Una certa frenesia e sventatezza nei suoni, un certo gusto della «monotonia» elencatoria nella parte vocale, che procedeva serrata, veloce, senza variare di dinamica o di drammatizzazione. La voce parlante-recitante era quella di Robert Ashley e tutta la musica di quel pezzo, scritto due anni prima, era sua.

Scoprire Ashley fu un piacere particolare. Ancora non si era sentito il rap di strada e nemmeno quello più «da concerto» che lo avrebbe accompagnato. Quando il rap dilagò un pensierino ad Ashley chi non lo fece? Almeno tra coloro che in Italia si occupavano di questo grandissimo compositore americano, ed erano persone che non si trovavano nelle società accademiche di musica contemporanea, normalmente eurocentriche e aristocratiche, indifferenti alle eresie musicali non certificate dai formulari consacrati, tipo serialismo. In quei giri (parecchio noiosi) lui e vari suoi compagni d’avventure sonore meravigliose, David Berhman, Alvin Lucier, Gordon Mumma, per esempio, erano sconosciuti.

Faceva «musica d’uso», Robert Ashley. Ecco perché i santoni della musica autodefinitasi «colta» non se ne occupavano. Ma non ci voleva molto a capire che quella «musica d’uso» era «musica d’arte» – come gli stessi santoni definivano (e definiscono ancora oggi) la musica «classica» di tutte le epoche – molto più d’arte di tanti esercizi dodecafonici. E soprattutto non ci voleva molto a capire che si trattava di musica originalissima, un tipo di musica che attingeva all’elettronica sperimentale, un po’ al minimalismo, ma poi si distendeva in languidi acri malinconici ironici racconti sonori che erano tanto raffinati quanto cordiali. Infatti, dopo In Sara, la poetica di Ashley, come nel ciclo Perfect Lives (1979-’83), parlò più esplicitamente di angoli di strada, di bar, di parchi cittadini, di sogni urbani fatti da personaggi solitari, strambi e marginali.

Ashley è morto il 3 marzo a 84 anni. Cirrosi epatica. Una sua nuova opera, Crash, era in programma proprio quest’anno. Di sicuro si tratta di un’opera con video, destinata al teatro e alla tv indifferentemente. Non sappiamo se prevede la partecipazione di Ashley stesso come vocalista. L’ultima volta che abbiamo ascoltato suoi lavori dal vivo, a Ferrara per l’edizione 2008 del festival Aterforum, era presente nel cast in un titolo, Dust, e assente in un altro, Concrete. Ma che cast di lusso metteva in scena! Joan La Barbara, a sua volta compositrice, la musa di Feldman, Cage, Reich, Glass, Subotnick, una chanteuse spericolata e disponibile, ai vertici della vocalità contemporanea mondiale. Thomas Buchner, un baritono capace di interpretare le partiture classiche e di duettare con il Roscoe Mitchell più avant-garde. E poi Sam Ashley e Jaqueline Humbert.

Grandi virtuosi. Ma di che cosa quando si sono trovati alle prese con opere di Ashley? Di un tipo particolarissimo di sprechgesang, di un canto che non è canto, di un recitato che non è recitato, di un parlato che non è parlato. Non soltanto. E tutte queste cose assieme. Dust (1998) a Ferrara era esemplare. C’erano in scena homeless che soggiornavano sulle panchine di un parco e un narratore che un po’ li presentava e un po’ filosofeggiava sulla loro vita e su di sé. Naturalmente il narratore era Ashley stesso, che si riservava spesso questo ruolo nelle sue opere più recenti, da quando non voleva più essere soltanto un solista unico con suoni acustici e suoni sintetici che lo attorniavano, come nelle opere del periodo Lovely Music. Il narratore a un certo punto esponeva (in sostanza) una sintesi delle concezioni musicali del compositore. «Se prendete un mazzo di idee brevi/e le disponete in modo che si sovrappongano un po’/otterrete un’idea lunga. Un pensiero…».

Erano le diverse frasi musicali di questo Ashley. Realizzate con un inimitabile gioco polifonico in cui cinque voci parlanti-melodizzanti si intrecciavano con tempi sempre diversi, accenti che si spostavano sempre. Voci che facevano musica mentre raccontavano storie di quotidianità strampalata. I virtuosi del cast sfoggiavano quindi un tipo di duttilità particolare: alla prevalenza del parlato che scorreva senza troppe scosse sapevano alternare brevi frammenti di «arie» intonate senza alcun riferimento alla tradizione dotta. Fino a un finale da vera e propria commedia musicale, con i suoni elettronici lievi diffusi nella sala che introducevano il gospel da juke-box tipo Platters.

Simile ma più ricco di materiali video un lavoro come Celestial Excursions (2003). È stato il lavoro con il quale, finalmente, Ashley è stato accolto nel 2006 alla Biennale Musica di Venezia, allora diretta da Giorgio Battistelli. Ecco come lo presentava Ashley stesso in una intervista al manifesto. «C’è una trama, se vogliamo chiamarla così, ma prende le mosse dal fatto che i personaggi (vecchi in attesa della morte, ndr) inventano la loro vita… ognuno di loro si costruisce una storia». In scena l’intreccio delle voci parlanti melodizzanti era ancora più fitto che in Dust, ancora più giocato su un’idea classicamente musicale e non classicamente teatrale. Un maestro di contrappunto, diciamolo, il grande Ashley.