Nessuno come Prince. Solo Ray Charles, Michael Jackson. Rogers Nelson, Prince, ha riscritto la musica afroamericana. Impossibile immaginare la musica degli ultimi trent’anni senza Prince. Le innovazioni introdotte da Prince nella musica pop sono state cataclismatiche. Talento precocissimo, multistrumentista, reinventa il funk e il soul alla fine degli anni Settanta. Gli bastano due dischi, peraltro ottimi, For you e l’omonimo album del 1979, per sconquassare il mondo con Dirty Mind. Basta leggere le memorie di Ahmir «Questlove» Thompson, batterista dei Roots, per comprendere, in profondità, come Prince abbia contemporaneamente spostato il baricentro della musica afroamericana verso il pubblico bianco, l’introduzione dell’elettronica, e allo stesso tempo radicalizzato l’approccio erotico, transessuale, al funk.

Prima che i Repubblicani costringessero l’industria discografica ad appiccicare etichette di autodenuncia sui dischi, Prince dava vita a sensuali jam erotiche, groove sessuali di disumana potenza, dove l’ondulare del ritmo annunciava una nuova era della percezione erotica del performer.

Se Michael Jackson è stato il folletto lunare e apollineo, Prince ha reintrodotto il puro dionisiaco nel soul. Funk (ossia l’odore del sudore dei corpi) e il soul (l’anima) che anela a Dio ma che, grazie a Dio!, resta ancorata alla terra attraverso un groove che non perdona. Dal 1980 al 1982, nell’arco di tre dischi inimitabili prepara il terreno per il capolavoro, la pietra angolare della musica degli anni Ottanta. Purple Rain. E mentre il mondo della musica, teso fra spasimi post-punk, ritirate più o meno geniali nella tradizione rock e sperimentazioni e contaminazioni, sembra parlare soprattutto a se stesso, Prince con Purple Rain riscopre la vocazione messianica, universalista del soul. Come solo la grande musica afroamericana ha saputo fare. Come solo Louis Armstrong, Duke Ellington e Charlie Parker hanno saputo. Restare nella tradizione ma ritrasformarla in cosa viva, scoperta pulsante del presente. Al punto quasi da oscurare, con la sua stessa trascendentale genialità, la propria creazione ridotta, grazie alle enormi vendite, a un luogo comune della musica.

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Un luogo comune del calibro di Thriller, per intenderci. Prince, però, non ha mai inteso ripetersi. Ed è li che nascono i problemi e le incomprensioni. Tutti ad aspettarsi il seguito di Purple Rain e Prince invece è già lontanissimo. Around the World in a Day (1985) è il suo omaggio all’era psichedelica. Un disco a colori, lontano dal melò al neon del suo capolavoro. Prince, come una fantasmagorica macchina divora musica, si reinventa nell’arco di un disco, lasciando tutti a bocca aperta. Non mancano le critiche, ma Prince ha già pronta la prossima mutazione. Si. Prince è stato il Bowie del soul. Lo Ziggy Stardust del funk. Parade (1986) si presenta con un singolo epocale. Lo scheletrico ritmo metronomico di Kiss che lascia tutti senza fiato. Il meglio, però, doveva ancora venire. Ancora una volta, a un solo anno di distanza, Sign ‘O’ the Times (1987), impossibile capolavoro doppio, sbaraglia concorrenza e critica. Un disco di quelli che, davvero, lasciano il segno nel tempo e diventano ponte per il futuro. Prince scippa mercurialmente alla cultura rock «bianca» il concept dell’album doppio e la conduce alle sue estreme conseguenze. The Cross, poi, brano dal titolo inequivocabile, fornisce indicazioni su una spiritualità e contradditoria.

Sino alla musica composta per il Batman di Tim Burton, Prince non sbaglia un colpo. All’inizio degli anni Novanta, i conflitti insanabili con la Warner. Lui cancella il suo nome con un simbolo impronunciabile e inizia a sperimentare le sue «directions in music», seguendo la lezione di Miles Davis. La critica musicale, si stanca. Non segue più Prince o se lo fa, ne scrive con accondiscendenza. Colpa gravissima. Prince si presenta come schiavo dell’industria musicale. Gli scribacchini, per lo più bianchi, ironizzano che uno schiavo ricco come lui non si è mai visto. Lui se ne frega. Boicotta la Warner con dischi «bellissimi»: Gold Experience (1985), Chaos and Disorder (1996) e soprattutto il triplo Emancipation (1996).

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Instancabile, lavora contro l’industria musicale seguendo la sua musa ondivaga. Recupera Larry Graham e Chaka Khan, George Clinton e Sly Stone. Gioca a tutto campo, dettando regole e legge. I duemila si inaugurano con The Rainbow Children (2001), disco segreto della sua opera. Jazz raffinatissimo, ma si preferisce puntare il dito sul suo essere diventato un testimone di Geova. E poi. Di fronte all’avanzata inarrestabile dell’hip-hop, Prince rilancia il primato della musica suonata. Magistralmente. E della sperimentazione. Dare un ascolto a N-E-W-S per farsene un’idea o alla magnifica raccolta di «scarti» Crystal Ball (1998). Ed è proprio nel ruolo di alfiere della tradizione che il musicista si reinventa. Musicology (2004) (evidente omaggio a Bird), il micidiale 3121 (2006) e lo splendido Planet Earth (2007) che promuove con un mese di concerti all’O2 londinese.

Come un jazzman della vecchia guardia, riempie il puntuto O2 sera dopo sera. E ogni sera è una musica nuova e diversa. Mai quello che si aspetta il pubblico, ma mai come Bob Dylan che gode a far soffrire il pubblico. Prince offre in chiave e veste nuova le canzoni più famose. Suona in media tre ore e oltre a notte. E, in una notte particolarmente incantata, offre una versione al fulmicotone di Whole Lotta Love dei Led Zeppelin. E When Doves Cry non l’ha mai negata. E Purple Rain non l’ha mai fatta mancare.

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E quando stavamo tutti in piedi a cantare con lui, con le lacrime agli occhi, non avremmo mai pensato che in un qualsiasi 21 aprile del 2016, sarebbe venuto a mancare per una stupida influenza, ucciso dal più criminale sistema sanitario del mondo. Ecco, ancora una volta con le lacrime agli occhi, ti chiedo, con le tue parole, How can you just leave me standing? Alone in a world that’s so cold? (come puoi abbandonarmi? Solo in un mondo cosi freddo)?