Questo maledetto anno pestilenziale si porta via anche il dolce volto di Paolo Rossi, l’eroe del mundial ’82, poche settimane dopo il sinistro divino dell’86. Aveva 64 anni, lo scorso anno aveva scoperto di avere il terribile male ai polmoni. Chiunque stesse sul campo o davanti alla tv in quel fantastico 5 luglio 1982, ricorda i tre lampi di Pablito, minuto 5, 25 e 74, in quel memorabile Italia-Brasile allo stadio Sarrià di Barcellona, il piccolo impianto avvolto su sé stesso dove sentivi l’odore e l’entusiasmo delle persone addosso, dirà poi Socrates. Il canone friulano di Bearzot contro il talento smisurato di Falcao, Zico, Cerezo, e Junior, l’attento pragmatismo contro il futebol bailado, la tripletta della resurrezione per il mingherlino centravanti, reduce da un digiuno di due anni, bersagliato dalla stampa sportiva per il suo vacuo trascinarsi tra le zolle durante il girone eliminatorio.

IL RAGAZZINO che fece l’impresa di eliminare la squadra favorita e poi di ripetersi nelle altre due partite, in semifinale con la Polonia e in finale con la Germania, vincendo il titolo di capocannoniere, di miglior giocatore del Mundiale e, mesi dopo, il Pallone d’oro. Anni dopo, dall’Africa alla Cina, quando ti dichiaravi italiano, spuntava subito fuori «Paolo Rossi, Paolo Rossi», il nome più comune nel paese per un attaccante ammirato in mondovisione.
Maglia numero 20, braccia larghe al cielo e sorriso fanciullesco, battezzato subito il carrasco do Brasil (il carnefice dei verdeoro), Rossi ha la faccia pulita del toscano simpatico e malandrino, quello capace di combinarti una marachella appena smetti di guardarlo, campione assoluto con un fisico normale, sebbene dotato di ottimi mezzi tecnici (segna con entrambi i piedi, di testa pur avendo un’altezza media, 174 centimetri, in acrobazia e persino in ginocchio, come contro i polacchi), opportunista dell’area di rigore, in grado di realizzare un attimo prima del difensore dove andrà il pallone. Definito un impasto di Nureyev e Manolete, personalmente mi sembra un erede migliorato di uccellino Hamrin, di fulminea rapidità, in grado di giocare sull’anticipo, con un fenomenale senso della posizione; un prototipo del futuro Pippo Inzaghi.
Nato il 23 settembre 1956 a Prato ma già nelle giovanili della Juventus a 16 anni, col suo sprint decisivo. Se Bearzot, l’allenatore con la pipa della nazionale, è l’uomo che ha rifatto l’Italia, coadiuvando Sandro Pertini, riunendo un paese dilaniato da bombe e terrorismo, regalando allegria collettiva con i suoi undici azzurri (che avevano già fatto le prove della vittoria, al Mundial argentino del ’78, dove aveva lanciato i giovani Tardelli e Rossi) e dando grande sicurezza al paese che s’inoltrerà negli anni di panna, dei paninari e del narcisismo diffuso. Paolo Rossi colpì emotivamente le persone con l’epopea dello scattante marcatore, uno qualunque senza un fisico bestiale che ce la fa, un esempio per tanti nel calcio ancora umano senza l’invadenza delle televisioni e degli sponsor. Ma anche fuori dalla sua disciplina, in una perenne altalena di gioia e di dolore, l’amarezza delle troppe lesioni ai menischi e la grande forza di volontà che gli ha permesso di ricominciare tante volte.

DAPPRIMA mandato in prestito al Como per i troppi infortuni, poi al Vicenza dove, nel 1977, il tecnico Giovan Battista Fabbri aveva appena perso il centravanti titolare e gli cambiò ruolo da aletta veloce a cannoniere d’area di rigore. Vinse il titolo di capocannoniere in serie B con 21 reti e la promozione in A. L’anno successivo portò i biancorossi al secondo posto, con 24 reti. Alle buste il presidente Farina scrisse una cifra esorbitante, 2 miliardi e 750 milioni, e se l’aggiudicò strappandolo ai bianconeri. Ma la dea bendata rovescia tutto.
Nella stagione 1978-79, l’implacabile goleador va a segno 15 volte nonostante un importante infortunio al ginocchio, il Vicenza retrocede, Rossi va in prestito al Perugia e viene coinvolto nello scandalo del calcio scommesse del 1980. Si proclama innocente ma viene condannato a una squalifica di due anni. Inizialmente pensa di smettere col calcio ma piano piano ritorna alla Juve e persino in campo, nelle ultime tre partite della stagione 1981-1982. «La convocazione me l’aspettavo, Bearzot aveva fiducia in me, in Argentina ero andato bene – ha dichiarato- Ma le prime partite sono un disastro. Tre pareggi con Polonia, Perù e Camerun: qualificazione per differenza reti. Non ero in forma, anzi. Un fantasma. Trovavo difficoltà a fare tutto, era anche un blocco mentale. Ma la fiducia dei compagni e di Bearzot mi hanno dato una carica eccezionale. I ragazzi scherzavano sul fatto che mi reggessi a stento in piedi. Era importante anche la presa in giro. Per lo stress ero dimagrito 5 chili. Mi facevano stimolazioni elettriche alle gambe. E ricordo che il cuoco tutte le sere, alle 22 e 30, mi portava in camera un bicchiere di latte e una brioche. Eravamo un gruppo eccellente, la prova fu il silenzio stampa di Vigo. Accettavamo le critiche tecniche, ma non le cattiverie gratuite. Si scrisse di tutto: bella vita, casinò, Graziani che aveva perso 70 milioni. Che io e Cabrini stavamo insieme. Non ne potevamo più di stupide illazioni e decidemmo di starcene zitti. La gara con l’Argentina è stata decisiva, vinta giocando bene. Io non segnai, ma stavo meglio. Non pensavamo certo di vincere il mondiale, però ci convincemmo di poter giocare alla pari con chiunque. Forse nel ‘78 eravamo più forti, io compreso, ma questa squadra era un concentrato di carattere. Il primo gol al Brasile, lo ricordo come il più bello della mia vita. Non ho avuto il tempo di pensare a nulla: ho sentito come un senso di liberazione. È incredibile come un episodio possa cambiarti radicalmente: niente più blocchi mentali e fisici. Dopo quel gol, tutto è arrivato con naturalezza». Dopo il trionfo, tornò a giocare con la Juventus conquistando lo scudetto e la Coppa delle Coppe nel 1983. L’anno seguente la Supercoppa Uefa e la Coppa dei Campioni ma con aspri dissidi col presidente Boniperti. E quindi andò prima al Milan e poi al Verona, ritirandosi nel 1987, a soli 31 anni, per gli innumerevoli dolori tra schiena e gambe ma pure per dare più tempo alla vita normale.

EBBE l’intelligenza sveglia di rifiutare il trasferimento al Napoli, nel 1979, scelta più infelice quando si presentò nel 1999 alle elezioni europee per Alleanza Nazionale, meglio da commentatore sportivo per Rai e Mediaset, con la consueta eleganza e molto garbo, spesso con l’inevitabile sincerità di confessare che «questo diluvio di partite di campionato mi annoia. Preferisco un Barcellona-Real Madrid o un buon match di Premier league».
Molto impegnato nel sociale, ha scritto la sua autobiografia, Ho fatto piangere il Brasile nel 2002 e 1982 il mio mitico mondiale, insieme con la moglie Federica Cappelletti nel 2012, nell’agriturismo dove si era ritirato a vivere. Ciao hombre del partido, con te se ne va un pezzo della nostra gioventù in un’Italia diversa e migliore.