Una chiarissima voce da contralto che toccava note altissime, virando molto spesso su un falsetto più vicino in realtà a un timbro femminile. Un fisico esile e un’immagine quasi efebica, Jimmy Scott – che si è spento giovedì scorso a Las Vegas all’età di 88 anni, è stato uno dei personaggi più amati dalla critica jazz, riscoperto dal pubblico nella sua tarda maturità nei primi anni 90, quando si guadagnò anche una nomination ai Grammy Award.

Terzo di dieci figli, James Victor Scott, la madre morta quando lui aveva appena tredici anni, iniziò a esibirsi in piccoli locali per poi entrare in una compagnia di vaudeville e finalmente – nel 1947 – nella grande orchestra di Lionel Hampton. La sua voce alta e purissima è rimasta sempre inalterata a causa di una rara malattia chiamata sindrome di Kallman, che non permette di raggiungere la pubertà. Quando un medico gli profilò la possibilità di sottoporsi a un’operazione che avrebbe potuto stimolare lo sviluppo ormonale, rifiutò. «Fare ‘impazzire’ i miei ormoni avrebbe potuto pregiudicare la mia voce. E la mia voce è tutto quello che ho…». Decisamente poco fortunato, Scott anche nei momenti più favorevoli: nel 1950 Everybody’s Somebody’ Fool – inciso con l’orchestra di Hampton – arrivò in classifica ma venne accreditato come «Lionel Hampton orchestra».

Uno dei pochi successi di una carriera discografica costellata di ottimi album ma di scarso successo, l’audience faticava a comprendere lo stile di questo artista che si muoveva a cavallo fra jazz e rhyth’n’blues con una voce indefinibile tra uomo e donna. Anche i rappporti con le etichette non lo aiutarono: un album registrato per l’etichetta di Ray Charles che aveva richiamato molta attenzione radiofonica e sopprattutto la distribuzione dell’Abc, venne bloccato da veto di Herman Lubinsky – il padrone della Savoy, che affermava di avere ancora sotto contratto Scott.

Stessa sorte sette anni dopo per un altro disco The Source, registrato per l’Atlantic. Deluso e un po’ frustrato dall’accavallarsi di eventi negativi, Scott decise di interrompere la carriera, sbarcando il lunario come cuoco, uomo di fatica in alberghi esibendosi solo occasionalmente. Poi nel 1984 la seconda chance della sua carriera, incoraggiato dalla quarta moglie rieprese a cantare regolarmente nei night club e a New York. Ma ad attrarre l’attenzione della Sire records fu la sua toccante versione di Someone’s to watch over me intonata nel corso dei funerali di Doc Pomus.

Subito messo sotto contratto, il primo album per la «rock» label All the Way (1992), composto da cover di lusso scelte da un repertorio che da Gershwin arriva a Porter, si muove bene nelle classifiche e soprattutto guadagna una nomination ai Grammy Award. Da quel momento molti tour in Giappone – dove  è da sempre una figura molto amata – e in Europa, con qualche apparizione cinematografica (Philadelphia, 1993, Chelsea Walls, 2001) e in un episodio della serie cult Twin Peaks.

Adorato da molti musicisti – Lou Reed rimase incantato dopo una sua esibizione, per molti colleghi è stato una sorta di padre putativo e fonte d’ispirazione, inclusi Marvin Gaye, Frankie Valli e Nancy Wilson, ha inciso nel 1998 Holding back the years dove affrontava alcuni evergreen del soul e del rock come il pezzo che intitolava il disco, un brano di Mick Hucknall dei Simply Red e Nothing compares to U di Prince, riletti in chiave jazz. La sua ultima apparizione è stata al Blue Note al Greenwich Village nel 2012.