Israel Horovitz è stata davvero una persona di cui si può essere fieri di aver conosciuto. È morto nei giorni scorsi nel Village newyorkese, dove si era trasferito in gioventù dal Massachussets dove era nato nel 1939. Di famiglia ebrea, laureato ad Harvard, è stato subito attratto dal mondo dello spettacolo, soprattutto da quell’Off-off Broadway dove nasceva la scena del secolo successivo. Amava scrivere per quella scena, in tutte le sue forme e lingue. Ha firmato così, nei suoi vitali 81 anni, ben 70 titoli teatrali, dove in quei primi anni si sono fatti conoscere al debutto attori come Al Pacino, Jill Clayburgh, Diane Keaton.

FORSE sono in minor numero le sceneggiature per il cinema, a cominciare da l’epocale Fragole e sangue (1970, premiato a Cannes) che del ’68 è rimasta la più forte testimonianza sullo schermo, aperta da Joni Mitchell e chiusa, per l’eternità, da John Lennon con Give Peace a chance. Ma a fine anni ’60 Horowitz era già stato anche in Italia, ospite al Festival di Spoleto con tre suoi testi al Teatrino delle sei con Ellen Stewart, , e da lì catapultato a Roma da Bino Cicogna, che produceva un film per la sua attrice preferita (Britt Ekland,che però stava col marito, il mitico Peter Sellers, nella stanza a fianco a quella di Horowitz…)) in una mega produzione che vedeva al centro John Cassavetes (e con lui Gena Rowlands e Peter Falk, e poi la Bolkan, Ferzetti e Randone, regista Montaldo). Horovitz li ricordava bene quegli anni, per la scoperta di Roma e della Dolce vita, ma anche perché a Spoleto si era legato molto a Samuel Beckett, che compuntamente assisteva a tutte le prove e le rappresentazioni dei suoi Giorni felici freschi di debutto parigino.

TORNATO in America aveva ripreso a scrivere furiosamente per l’Off Broadway, ospite privilegiato di Ellen Stewart al Cafè La Mama, dove debuttò il suo titolo forse più famoso Line, che faceva scorrere in una fila immaginaria e attaccabrighe un catalogo di umanità straripante, tra veri numeri di bravura e comicità. Un titolo a lungo replicato in tutto il mondo (in Italia dal Teatro due di Parma). Tutti quei testi, tra Broadway e Hollywood, ne hanno fatto un maestro di scrittura, pieno di riconoscimenti e di successo. Ma lui non «se la tirava» affatto, naturista e salutista, intento a lunghe passeggiate con la terza (e più duratura) delle sue mogli. Cinque invece i figli, tra i quali Adam, componente degli scatenati Beastie Boys. E ogni tanto, non pago di scrivere, fu anche regista cinematografico: pochi anni fa fece per Maggie Smith My old Lady.

CONTRO DI LUI partì però anche una campagna di accuse per molestie sessuali, rimasta poi senza seguito. Ma nel frattempo, una decina di anni fa, era arrivato a Spoleto, ospite del La Mama italiano di Andrea Paciotto e Adriana Garbagnati, felice di incontrarsi e misurarsi, sempre nella cittadina umbra dove era stato giovane autore di belle speranze,, con attori giovani, che portarono in scena i suoi testi. In particolare quella « trilogia Horovitz» che poi girò con successo in diversi teatri italiani come il milanese Elfo. A Spoleto ricevette anche una onorificenza (assessore alla cultura era Vincenzo Cerami), e in un percorso intellettuale e civile, spiegò come lui ebreo si sentisse vicino ai palestinesi. Con un processo che ha tratti in comune con quello di Harold Pinter: partendo dai paradossi e dalle contraddizioni individuali, per riversare la propria consapevolezza su diseguaglianze e ingiustizie planetarie. Del resto era quello il percorso dei suoi tre testi andati in scena: L’indiano vuole il Bronx (scritto a inizio carriera, sull’immigrato indiano che alla fermata del bus viene vilipeso e aggredito da due altri giovani marginali); Beirut rock (la fuga dei giovani americani dalla eterna polveriera libanese la notte in cui gli aerei israeliani la bombardarono); Effetto muro, scritto all’indomani dell’isolamento di Gaza, dove al Checkpoint di Ramallah un giovane soldato israeliano si scopre pronto a farsi lui dinamitardo per vendicare la famiglia sterminata. Insomma una teatralità, quella di Horovitz, capace di farsi specchio della storia e insieme vitalità della parola.