Uniti si vince, spiegò Herman Boone alla Virginia, uno degli stati in cui la questione razziale era avvertita maggiormente negli Stati uniti oltre 40 anni fa. Ed ebbe ragione, vinse lui, sul campo e nella lotta per i diritti civili. Boone, morto nei giorni scorsi dopo una lunga malattia, è stato l’allenatore della squadra maschile di football alla High School di Williams Alexandria, in una piccola cittadina della Virginia, in cui vennero raggruppati studenti di una scuola di bianchi e un’altra con soli afroamericani. Una fusione a freddo che provocò una rivolta non solo tra gli abitanti ma anche nella squadra di football, i Titans, perché il capo allenatore, Bill Yoast, bianco, fu addirittura costretto a cedere la panchina, diventandone vice, allo stesso Boone, afroamericano. Uno «scandalo» per l’epoca: un nero che dava ordini e un bianco costretto a eseguire, facendogli da secondo, coprendogli le spalle, in una squadra divisa esattamente a metà.

ECCEZIONE nello scenario tipico dell’America dei primi anni Settanta, in cui la segregazione, il razzismo era estremamente radicato, specie al Sud. Anche se nel decennio precedente c’erano già stati sportivi famosi che si erano apertamente schierati contro l’intolleranza diffusa. Come Bill Russell, stella dei Boston Celtics (Nba), a cui venne «suggerito» da un dirigente della sua squadra di alloggiare in un albergo per soli neri a Lexington in Kentucky perché in città non tirava aria buona, oppure Jackie Robinson, il primo giocatore afroamerican nel campionato nazionale di baseball, a sottolineare la questione razziale nello sport, tra discriminazioni, episodi di violenza, sopraffazione. Senza dimenticare sul finire degli anni sessanta l’immagine iconica di Tommie Smith e John Carlos, sul podio dei 200 metri di Città del Messico con la testa china e il pugno chiuso, avvolto da un guanto nero, una delle istantanee più significative del Novecento.

E POI Muhammad Alì, anche lui figlio del Kentucky (Louisville) che prendeva a pugni gli avversari, il razzismo, che decise di convertirsi all’Islam abbandonando il suo nome da schiavo. Ma la storia di Boone è poco nota , decisamente meno mainstream, anche se il suo slogan riuscì ad avvicinare realtà in apparenza inavvicinabili: ovvero atleti costretti a viaggiare su due bus diversi per il colore della pelle.
«Non mi interessa che vi piacciate, mi interessa che impariate a rispettarvi», urlava sempre Boone ai suoi ragazzi. Ha raccontato Aly Khan Johnson, nello staff di Boone: «Quando sono arrivato lì, ho visto atleti lavorare insieme, uscire insieme. Era una fratellanza che si percepiva chiaramente».

IN APPARENZA, un passaggio semplice: scendere dal bus, indossare le divise e giocare per la stessa maglia, per vincere. In uno sport di squadra come il football, in cui c’è sempre da dividersi metri da percorrere, botte da assorbire in mischia o nei placcaggi, troppi e così violenti che ci sono sempre meno bambini che si avvicinano alla palla ovale per il timore dei genitori che possano poi riportare danni cerebrali negli anni, come avvenuto a tanti protagonisti della National Football League. E invece, la storia, il successo senza una sola sconfitta nel campionato statale nel 1971 tra diffidenze, i fallacci, gli episodi di discriminazione a opera delle altre squadre bianche del campionato e la conversione di ragazzi prima nemici e poi inseparabili amici divenne la sceneggiatura di un film del 2000con Denzel Washington nei panni di Boone, Il Sapore della Vittoria – Uniti si Vince.