Per chi ha avuto la fortuna di vivere, anche solo da spettatore, questi ultimi quattro o cinque decenni della scena romana, la morte di Simone Carella, avvenuta ieri a Roma, appare davvero come l’immagine atroce della «morte dell’avanguardia».

Non per esagerazione di rito o per buonistica sommarietà, ma perché Carella, a partire dai primi anni 70, della avanguardia e della sua pratica è stato il corpo e l’intelligenza da tutti riconosciuti. E non solo in senso strettamente teatrale.

Era nato nel 1946, ma portava i suoi settant’anni con una leggerezza, una simpatia e un calore che gli permettevano di esprimere i giudizi anche più drastici, ancora oggi, magari incrociandolo all’uscita dell’Argentina, anche se poi era tale il suo amore per il teatro, da fargli cercare sempre elementi di apprezzamento da ripescare nel lavoro di chiunque, purché sincero. Non erano diminuiti per niente, dai tempi del glorioso Beat 72, il suo entusiasmo e la sua creatività, la sua cultura e la sua «fantasia». Non che non fosse consapevole che i tempi fossero cambiati: ma dall’appiattimento attuale, dalla pigrizia diffusa e dall’invadenza del politicume perfino tra le quinte e il palcoscenico, si sforzava sempre di prescindere, quasi che non volesse esserne travolto. E continuava a progettare, inventare, elaborare idee e piani che nessuno poteva giudicare irreali o di basso profilo, anche se destinati ovviamente e infallibilmente a rimanere puri discorsi.

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Nella sua semplicità dimessa, nell’uso tagliente del romanesco che serviva a rimettere a misura le cose, nella sua bonomìa sempre sorridente, Simone aveva la libertà assoluta di dire a tutti in faccia quello che pensava, quando era necessario. E per quanto netto nelle sue affermazioni, la sua umanità poteva portare a una risata generale e liberatoria anche i confronti più ardui. Del resto, il lavoro al Beat 72, la madre di tutte le cantine romane e quindi una delle stagioni più fertili e famose della scena italiana, gli concedevano una indiscutibile autorità. Di quello spazio letteralmente «sprofondato» dietro piazza Cavour, lui era stato l’inventore e poi vulcanico animatore, assieme a Ulisse Benedetti che cercava di far quadrare gli improbabili conti, perennemente in rosso.

Da quello scantinato sono esplose le prime apparizioni di Carmelo Bene, e di Leo De Berardinis con Perla Peragallo. E dopo quei «padri fondatori», lì si mostrarono Memè Perlini e Giuliano Vasilicò, e Gianfranco Varetto, e tantissimi altri e altre, senza trascurare perfino alcune apparizioni che sarebbero poi confluite nella famiglia ronconiana.

Nel tempo ristretto di pochi anni tutti coloro che avrebbero lasciato una traccia sulle scene, passavano da lì. Martone, appena finiti gli studi, si mostrò lì per la prima volta, portando da Napoli con i suoi amici, come ha raccontato, «le scene dello spettacolo in una valigia». Al Beat esplose La Gaia Scienza di Giorgio Barberio Corsetti (appena tornato da un ricco apprendistato newyorkese) con Alessandra Vanzi e Marco Solari, che al secondo o terzo spettacolo dilagarono addirittura sugli alberi dei giardini prospicienti il Palazzaccio dei Tribunali, quasi una evidente e aggressiva metafora del potere del teatro.

Lo spazio di Carella fu rassicurante e fecondo per registi, attori e teatranti di diversissime prospettive e sviluppi. Anche perché attorno al Beat si erano raccolte nel frattempo la curiosità innovativa di Franco Cordelli e la saggezza puntuta di Beppe Bartolucci, come anche la prospettiva delle arti visive di Fabio Sargentini dell’Attico. E molti altri artisti ci passavano, che a quello spirito si sentivano affini. Alcuni di loro destinati a diventare i futuri grandi maestri della scena italiana: da Carlo Cecchi che reinventava da par suo il teatro comico napoletano di Petito, a Giorgio Marini, che dopo i primi titoli, costruì su misura del Beat la trionfale Karen Blixen di Diluvio a Norderney per quattro magiche signore della scena.

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È quindi evidente che lì, in quella prima cantina gloriosa, è nato il grande teatro dei decenni successivi. Ma non solo il teatro, perché sul finire degli anni 70, avvenne un altro incontro decisivo: quello con Renato Nicolini, che chiamato da Argan all’assessorato alla cultura, andava elaborando e architettando una nuova casamatta della cultura e della sua politica vitalità, l’Estate romana. Il Beat ne divenne un partner quasi obbligato, e le serata creative di Carella e Nicolini, incessanti e irresistibili, erano davvero una fucina vulcanica di pensieri e di progetti.

Lì nacque la manifestazione che, forse anche per il livello degli invitati presenti, resta tuttora nella memoria «romana» più blasonata in America e in Europa. Era il Festival dei poeti sulla spiaggia di Castelporziano: i maggiori poeti del mondo a leggere i propri versi davanti al mare, di fronte a parecchie migliaia di persone sistemate sulla sabbia.
Sfilarono lì sulle dune Le Roi Jones, William Burrougs, Allen Ginsberg, Gregory Corso, Lawrence Ferlinghetti (praticamente l’intera beat generation), ma anche Evgenji Evtuschenko e Osvaldo Soriano, presentati dall’attore che del Beat era a suo modo la star, il compianto e indomabile Victor Cavallo. Un trip alla massima potenza, drammaturgicamente concluso dal botto (involontario ma efficace) delle tavole del palcoscenico, che crollarono l’ultima sera sotto il peso della poesia e del minestrone appena servito, davanti al pubblico attonito e conquistato.

Sui palcoscenici tradizionali, al di là delle visioni cui ha dato corpo, e degli spettacoli del primo Beat 72, insieme allusivi e tranchant per gli squarci che aprivano, Simone Carella ha realizzato all’Opera di Roma la ripresa dei balletti dell’avanguardia futurista. Ma è al Beat 72 che ha mostrato l’ispirazione, la curiosità e anche l’intransigenza del ricercatore. Mai appagato, ma in continuo travaglio per scoprire fuori delle convenzioni del consumo, l’essenza profonda del pensiero e della comunicazione teatrali
Oggi sarà possibile salutarlo durante il funerale laico che dalle 11 alle 16 sarà ospitato al teatro India.