Il ministro e il ministero dell’Istruzione utilizzano il voto scolastico come momento di comunicazione massima con la grande platea elettorale dei docenti e, soprattutto, dei milioni di genitori degli studenti, come si trattasse di una questione di marketing. Maquillage in una scuola sempre più povera di fondi e di personale e dove il caos regna sovrano mentre si avvicinano a passi da gigante le date dei referendum e delle votazioni.

Insegno nella scuola dal 1983. La cosa che è cambiata più spesso: la valutazione degli studenti. Ciò dà il senso di quanto pressappochismo e dilettantismo ci sia in chi da anni legifera e ci parla di scuola. In trent’anni si è cambiato otto volte. La professione docente è tra le più flessibili del mondo. I bambini e i ragazzi sono cavie.

Oggi ci vengono a dire che il voto numerico fa male, prima ci hanno detto che era necessario per avere una comunicazione più diretta e chiara con studenti e genitori. Oggi ci dicono che non è bene bocciare un bambino di sei anni, non ha senso; fino a qualche mese fa ci dicevano che una scuola che promuove il merito deve essere selettiva e bocciare era sacrosanto; anzi, più si bocciava e meglio era. Insomma, tutto è aleatorio, niente è serio. Al ministero dell’Istruzione assicurano che è l’ennesima innovazione. Ci mancherebbe!

E’ una regola dettata da sani principi pedagogici e un pizzico di buon senso. Già. E in questi dieci anni? Gli studenti che sono stati valutati senza «sani principi pedagogici e buon senso»? Si arrangino. Al posto dei numeri, tornano le più «eque e meno limitanti» lettere: ovvero, A-B-C-D-E, cinque gradi di giudizio per valutare gli studenti e assegnare loro un punteggio qualitativo dopo aver constatato se hanno o meno raggiunto gli obiettivi fissati dal ciclo di studi.

Magari l’anno prossimo ci sarà la valutazione con i numeri romani: siamo pronti a tutto. Adesso la novità è questa. Obiettivo? Si dice: uscire dalla logica della scuola-calcolatrice, limitare le ansie della corsa al voto e far riaffacciare l’idea che il successo scolastico sia un percorso, e non una media delle performance. «Così restituiamo alla scuola primaria il compito di mettere bambine e bambini agli stessi nastri di partenza – ha spiegato l’amica senatrice Francesca Puglisi, che sta seguendo l’iter – Misurare con un numero la gioia di apprendere di un bambino è come misurare il cielo con un righello».

Quanta poesia! Ma dalla logica della scuola-calcolatrice non si esce: perché le prove Invalsi, che da anni rappresentano lo strumento più utilizzato e promosso di valutazione, e sono osteggiate dai docenti e dai pedagogisti, restano intatte con tutte le loro medie e i loro grafici. Allora? Alla vera utenza della scuola, i genitori di alunni e studenti, si dice che tutto ok: nessun bocciato, nessun 5. Mentre la vera valutazione avviene sempre attraverso l’Invalsi, sempre più invasiva, ormai anche nei libri di testo: risposte a crocette, test, niente oralità, bambini come numeri, ognuno col suo codice a barre come un prodotto al supermercato. Sempre con i bambini disabili che vengono esentati per non rovinare la media, come se non esistessero.

E’ l’altra faccia della scuola azienda, che da un lato segue ferree linee di mercato, anche se magari già vecchie, stagionate, sorpassate, – fregandosene della privacy, tra l’altro: le prove invalsi, cari genitori italiani, chiedono ai vostri figli anche il vostro titolo di studio, la nazionalità, il numero di libri che avete o non avete in casa, suggerendo una inquietante equazione genitori-figli che testimonia la non applicazione dell’articolo 3 della Costituzione, – ma dall’altra, sul piano della comunicazione con i propri clienti-famiglie, ammicca e ti dice: «Va tutto bene. Nessun bocciato. Giudizi non traumatici né per lo studente né, soprattutto, per la sua famiglia, così ci evitiamo anche grattacapi.

Tanto i nostri figli mica li iscriviamo alla scuola pubblica, la scuola dei poveri e degli ingenui che si fanno prendere in giro ogni anno con qualche novità pensata a metà estate. La scuola è tua. La coop sei tu, utente dalle scuola pubblica italiana, tranquillo, chi può darti di più?».