All’inizio c’era quel Love, enorme con la O inclinata che abbracciava le altre lettere (era il 1964 quando si propagò come un virus in forma di cartolina per gli auguri di Natale del MoMa, anche se l’opera era precedente), poi fu il turno di Hope, sempre con caratteri cubitali e questa volta per accompagnare l’ascesa presidenziale di Barack Obama.
In molti hanno voluto vedere in quella scritta perentoria un proclama hippie contro la guerra, anche se lui non ha mai confermato l’«impegno» sotteso alla parola scelta. Da un lato, considerava quella sequenza di lettere azzeccate la sua condanna, un errore che lo aveva crocifisso. «È molto meglio essere esclusivi e remoti, troppa popolarità non giova – diceva -. Ecco perché mi sono ritirato su un’isola». Ed è lì che è morto, a 89 anni, Robert Indiana. Sull’isola al largo della costa del Maine, il luogo amato dove si era rifugiato, in fuga dal caos di New York, inseguito dalla preoccupazione di amici e galleristi che ormai faticavano a contattarlo per riportarlo dentro la scena dell’arte. Ma la scia esistenziale della sua visione pop è passata ugualmente in un rivolo di oggetti, trasformando l’arte in un gadget dalla moltiplicazione seriale.
In giro, circolano anche 330 milioni di francobolli con la sua «icona» racchiusa in uno sgargiante tris di colori – rosso, blu e verde, gli stessi che sovente lampeggiavano nelle deserte strade di provincia, di notte. Il destino di Indiana è stato quello di essere l’artista più copiato e plagiato del XX secolo (con qualche propaggine pure in questo XXI). Così per ritrovare origini e radici bisognerà scavare dietro quell’invadente Love che non ha lasciato spazi e ha appiattito Robert Indiana sul cliché dell’American Dream. «La nostra follia», definiva quel sogno lui stesso.
Nato a New Castle nel 1928 (Clark il suo vero cognome) passò l’infanzia e l’adolescenza in perenne movimento seguendo una madre eccentricamente insoddisfatta e propensa a cambiare casa ogni anno, mentre il padre seguiva le sorti della Grande Depressione e da manager finiva a gestire una pompa di benzina (soggetto molto pop) per poi avere un lavoro amministrativo alla Phillips 66.
Per il figlio Robert, però, le insegne al neon delle stazioni di servizio saranno la prima scuola d’immaginario, un nutrimento che riaffiorerà nei decenni, intatto. Un giorno decise che l’arte sarebbe stata la sua strada e non le compagnie petrolifere: studiò dividendosi tra gli Stati Uniti e la Scozia.
All’inizio, faceva assemblaggi con gli alberi dismessi delle navi o travi di edifici abbandonati e quando si trasferì definitivamente a New York per intraprendere la sua carriera, a Coenties Slip, un’insenatura nella Lower Manhattan, aveva come vicini di casa Agnes Martin, James Rosenquist e Cy Twombly (condivisero anche l’atelier per un periodo) e un legame affettivo con Ellsworth Kelly. Anche Andy Warhol fece la comparsa nella sua esistenza. Lo incontrò nel 1964 per «recitare» nel suo film Eat dove Indiana non faceva nient’altro che gustarsi un fungo per ben 45 minuti di sequenza. Naturalmente, anche questa parola divenne un feticcio da museo e l’artista la disseminò nelle sue mostre per tutti gli anni Settanta.
Così come Hug, abbraccio, in onore alla madre e Die, l’azione di andarsene una volta per tutte. In esilio dalla terra.