Il posto che occupa Marco Rosci nella cultura storico-artistica del Novecento italiano è soprattutto legato a una stagione gloriosa: gli anni sessanta quando, nel solco di Giovanni Testori «in Valsesia socius», riscopre un settore fino a quel momento negletto dagli studi: il Seicento lombardo. Un Seicento lombardo che – contro le moderne letture estensive del «Barocco lombardo» (dove Barocco si pensa sia sinonimo di vendibilità) – è «interpretativo» e «parziale», giocato su suggestioni letterarie, Manzoni in primis, che diventano la chiave per spiegare il secolo, un secolo che si chiude poco oltre il 1630.
Il novarese Rosci, classe 1928, si laurea nel 1951 alla Statale di Milano (cui ha donato la sua biblioteca) con Paolo D’Ancona, reintegrato dopo le epurazioni fasciste. Di lì a poco diventa assistente di Anna Maria Brizio, allieva di Adolfo e già assistente di Lionello Venturi, con cui condivide – oltre all’amore per Leonardo – una forte passione politica (restano memorabili i racconti, post ’68, della Brizio che, «come una vestale», si oppone ai celerini nel cortile della Statale ridotto a lager, e di Rosci che, dopo un’appassionata lezione, dimentica un disegno di Tanzio da Varallo sul treno). I suoi primi studi sono dedicati all’architettura: Benedetto Alfieri, Vanvitelli e Juvarra (ma anche il Palladio per il neonato CISA di Vicenza). Interessi che condivide con Rudolf Wittkower (sono gli anni dei fondamentali Art and Architecture in Italy 1600 to 1750 e di Montagnes sacrées, su «L’oeil»), che ha modo di incontrare forse già prima del mitico Convegno di Varallo Sesia del 1960, quando ancora i convegni non erano pretesti buoni per le mediane universitarie.
Intanto sistema la pinacoteca di Varallo, nella Valsesia dell’ingegnere Giorgio Rolandi che voleva, come un moderno Fitzcarraldo, traforare il Monte Rosa, poco prima dell’approdo ai piedi delle Alpi della pisana Stefania Stefani, la futura «Stefania del Monte» di Testori e sodale di sempre di Marco. Grazie agli uffici milanesi di Rolandi, alle sue moderne fotocopiatrici, la pinacoteca di Varallo otteneva così, rapidamente, un allestimento e un catalogo. Per Rosci il palcoscenico internazionale per presentare i protagonisti figurativi di quella valle, Tanzio da Varallo in particolare – una delle ossessioni figurative e poetiche dell’amico Testori –, è il «Burlington Magazine», dove Wittkower era di casa, diretto allora da Benedict Nicolson, marito di Luisa Vertova, l’ultima assistente di Bernard Berenson.
Gli anni sessanta sono quelli della mostra al Broletto di Novara sul Cerano (1964), l’artista che studierà per una vita (seguiranno una volume nel 2000 e una monografica al Palazzo Reale di Milano nel 2005). L’esposizione novarese, immortalata da celeberrimi scatti di Ugo Mulas che raccontano persino la difficoltà di spostare i grandi quadroni del Duomo di Milano con la vita e i miracoli di San Carlo (tanto da scavare un sentiero sotto gli ingressi del Broletto), vantava un immaginifico allestimento di Vittorio Gregotti, dove i quadri, scorniciati, sembravano galleggiare nel vuoto e nel buio. Tra gli altri, anche Luchino Visconti aveva visitato la mostra e se ne era portato dentro un ricordo fino alla messa in scena dell’Egmont di Goethe, con le musiche di Beethoven, per il Maggio Musicale Fiorentino del 1967.
Ma Rosci non è solo il Seicento lombardo-piemontese, o anche e precocemente il Settecento, con la mostra, a Varallo, di Giuseppe Antonio Pianca (1962) – il pittore del Martirio di San Lucio, un quadro (Novara, Sant’Eufemia) che sfida «Watteau e Tiepolo», anticipatore di «Géricault», e la cui grandezza, davvero europea, stenta ancora a farsi strada, nonostante la bella monografia di Filippo Maria Ferro, lo psichiatra e storico dell’arte, che di Rosci fu allievo fin dal liceo. Rosci è lo studioso pure della Torino di Casorati padre, ma anche figlio, dei Sei, molto presto del Liberty, di molta arte contemporanea, soprattutto di compagni di strada (Sergio Bonfantini). Ma non disdegna anche la ricerca filologica sulle fonti del Cinquecento (il trattato d’architettura di Serlio o Il Riposo di Borghini), la natura morta (Baschenis e Bettera, con una lettura in chiave di produzione seriale e quindi quasi industriale, legata al mercato), senza dimenticare l’Ottocento (Giovanni Migliara, ma anche Il volto figurativo della Lombardia da Carlo Porta a Carlo Cattaneo, insieme alla carissima Maria Cristina Gozzoli), quando questo secolo rappresentava la punta di diamante negli studi, intesi in senso sperimentale e non ancora mercantile.
La saldatura precoce con Testori permette a Rosci un forte legame con l’ambiente di Roberto Longhi (non a caso scrive alcuni testi per i «Maestri del Colore» e per i «Maestri della Scultura» dei Fratelli Fabbri, il più grande tentativo di divulgazione storico-artistica di alto livello) e anche, nel 1980, di curare a Torino, insieme al quasi coetaneo Enrico Castelnuovo (un dissidente della Brizio che si perfeziona con Longhi), la mostra sulla cultura figurativa e architettonica negli stati del re di Sardegna. Un’esposizione che segna, nello stesso anno delle mostre medicee di Paola Barocchi, un parallelo avamposto di metodo.
Il palcoscenico torinese, dove Rosci insegna all’Università, è anche quello delle mostre, fra le altre, sulla Torino fra le due guerre (1978: con un saggio sulle arti decorative e industriali; in questi anni si interessa pure di archeologia industriale) e, parecchi anni dopo, sull’Esposizione internazionale del 1902. La sua attività come pubblicista – per La Stampa – lo occupa per tutta la carriera in una varietà di interessi e applicazioni a tutto campo.
La lezione che lascia, oltre a quella storico-artistica, è di una profonda umanità, una disponibilità al confronto continuo, alla messa in discussione anche dei temi di affezione, pronto a condividerli con i più giovani, senza la difesa a oltranza, come capita spesso nella disciplina che praticava, di horti conclusi che si credono propri e conclusi.